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Il Partito democratico è un rospo indigesto (di M. Negarville)
10.01.2007

A chi interessa una esitante e sospettosa fusione tra i DS e i Dl? L’Ulivo è vecchio e lo stesso Partito Democratico sta invecchiando: è sul tappeto da tempi politicamente troppo lunghi. Il momento di una sua formazione entusiastica, accompagnata da un forte consenso nel popolo della sinistra, sta passando.

Il Partito democratico, in un modo o nell'altro, si farà. Tutto sta, però, nello stabilire in che modo.

I sostenitori considerano la formazione del Partito democratico un compito decisivo e urgente.

1. La evidente inadeguatezza dei patti di governo tra le componenti della coalizione e dello stesso Ulivo induce le maggioranze interne ai DS e alla Margherita ad intensificare l'azione per costruire un nuovo partito.

2. Il Partito democratico dovrebbe divenire il più forte soggetto politico del paese, dove convergono i riformismi di varia matrice, dando alla coalizione di centrosinistra un nucleo e una direzione nettamente "egemonici".

Questo nuovo partito dovrebbe essere definito tra il 2007 ed il 2008 ed essere in campo nelle elezioni europee del 2009: ulteriori rinvii sarebbero pericolosi per le sorti del governo, letali non solo per il partito in questione, ma anche per i gruppi dirigenti dei DS e della Margherita che, dopo vari tentennamenti, su questa prospettiva puntano oggi tutto.

Tutto ciò è chiaro. Assai meno chiari, invece continuano a risultare gli argomenti e le azioni per:

- superare le persistenti resistenze che un simile disegno incontra in zone relativamente ampie degli stessi riformisti del centrosinistra.

- accendere, fuori del ceto politico professionale o semiprofessionale, quell'interesse e quella passione democratica e civile nella persistente latitanza dei quali è ben difficile immaginare che il progetto possa prendere corpo

Se è di una grande ambizione che stiamo parlando, allora è di un confronto aperto e, perché no, duro che c'è bisogno. Di un confronto il cui esito non può essere stabilito in partenza, e che deve investire senza reticenze molte questioni in questi anni rimosse, o nascoste sotto il tappeto.

La crisi dei partiti

Dagli anni sessanta in poi sono cresciuti i livelli di disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti nel loro insieme, si è andato erodendo il senso di identificazione degli elettori verso uno specifico partito, il numero di iscritti (dichiarati) è in costante calo, così come è in calo la quota di iscritti che effettivamente partecipano alle attività di base.

Questo indebolimento della base associativa è stato però compensato da

- un cospicuo ampliamento delle risorse e delle strutture poste a diretto servizio del personale politico all’interno delle istituzioni di governo nazionale e locale,

- una cospicua crescita dei finanziamenti pubblici messi a disposizione delle organizzazioni extra-istituzionali di partito

L’indebolimento dei legami con l’elettorato e l’assottigliamento della base dei militanti non hanno quindi diminuito l’influenza dei partiti sulle decisioni pubbliche e sono stati anzi accompagnati da una crescita delle risorse finanziarie e delle strutture di staff a disposizione. Cosicché

- i partiti si sono progressivamente trasformati da associazioni di cittadini in società di professionisti, con quel che ne consegue per il ricambio, sempre meno fluido, della classe dirigente.

Della limitata partecipazione all’interno dei partiti abbiamo significative prove .

- solo il 6% degli intervistati identificabili come elettori dell’Ulivo dice di essere iscritto ad un partito.

- Tra quel 6% di intervistati che dichiara d’essere iscritto, più della metà (il 54,5%) afferma di non avere mai partecipato, nei dodici mesi precedenti all’intervista, ad una qualche attività politica promossa dal suo partito.

- meno del 3% degli elettori dell’Ulivo ha detto di aver frequentato almeno una volta nel corso dell’anno precedente una qualche attività di partito.

- meno di un elettore dell’Ulivo su 100 ha detto di averlo fatto «spesso», essendo dunque riconducibile alla categoria del «militante».

A questa caduta della partecipazione corrispondono nei partiti italiani comportamenti tesi a

- andare alla caccia di un circoscritto segmento dell’elettorato e coltivare quell’elettorato attraverso l’attitudine a distinguersi,

- prendere le distanze dal governo o dalla coalizione di cui pur sono parte.

Le caratteristiche peculiari della politica italiana, continuano così ad essere

- il frazionismo,

- l’incapacità di elaborare visioni condivise

- la mancanza di un senso di responsabilità collettiva nei confronti di un progetto di lungo termine per migliorare il Paese,

- la continua ricerca di ragioni (pseudo)ideologiche dietro le quali coltivare rendite di posizione.

Ma non basta, queste caratteristiche si accompagnano ad un’ossessiva e continua trattativa tra partiti e sempre più spesso anche all’interno di uno stesso partito, per la collocazione di propri fiduciari in posti chiave con relativa spartizione delle risorse pubbliche disponibili.

Questo perverso intreccio tra continua ricerca della distinzione e continua trattativa per la spartizione genera effetti deleteri sull’azione di governo (tanto nazionale che locale) e alimenta nell’’opinione pubblica un diffuso sentimento antipolitico.

Una transizione incompiuta

Tutto ciò si muove in uno scenario segnato da una infinita transizione che non sembra mai concludersi. Con il crollo del sistema partitico della Prima repubblica si sarebbe dovuto:

- promuovere l'alternanza tra due schieramenti in competizione,

- mettere fine alla delegittimazione reciproca,

- avviare un rinnovamento delle culture politiche,

- stabilire meccanismi elettorali in grado di combattere con successo la frammentazione partitica

- sottrarre le maggiori forze di governo al permanente ricatto dei partiti minori poggianti su un debole consenso ma dotati di uno strapotente diritto di veto,

- mettere mano a riforme condivise della Costituzione.

E' passato un periodo lungo 14 anni e il bilancio della transizione è sotto i nostri occhi: abbiamo l'alternanza tra gli schieramenti, ma per il resto …….

- La competizione tra gli schieramenti - per responsabilità non solo, ma anzitutto del

centrodestra – mantiene i toni di uno scontro indecente;

- il sistema maggioritario, una volta scartato il doppio turno per non negare a nessuno la presenza in Parlamento, ha dato si luogo a due coalizioni, ma al contempo ha conferito a ciascuna di queste l'aspetto di armate Brancaleone i cui presunti generali possono a piacere sbandare l'intero esercito, tenuto insieme più che da legami comuni dall'interesse a battere la parte opposta;

- le leggi elettorali hanno seguito un andamento che ha portato dal male ad un peggio scaduto nel vergognoso, prima una una estrema frammentazione dei partiti oggi la loro involuzione oligarchica.

Esiste nella società italiana una domanda di radicale svolta politica?

E’ in questo quadro di crisi dei partiti e di transizione incompiuta che va collocata la proposta del PD.

I DS stanno andando verso il Partito democratico in condizioni di divisione. Il rifiuto del PD da parte della sinistra interna è netto. Emerge una posizione centrista che, con una strategia di rassicurazione degli iscritti, mira a conservare l’esistente con l’ ipotesi della federazione. Dietro a questa situazione si leggono i nodi irrisolti della storia dei DS: il rifiuto della scelta socialista al momento della nascita del PDS, per non fare i conti con la tradizione del PSI e con Craxi, la mai sciolta ambiguità nei confronti dell'eredità comunista.

Nei DS permane una linea di doppia verità, fatta di rotture dichiarate in pubblico e di continuismo all'interno. Continuismo alimentato dalla convinzione della superiorità politica e morale della storia dei comunisti italiani rispetto a tutte le altre storie politiche, insieme alle quali però si dovrebbe dar vita al PD,: socialisti, liberal/democratici, radicali e cattolici (anche se per questi ultimi una parte non piccola del gruppo dirigente mostra una certa predilezione fondata sulla nostalgia del compromesso storico, con inevitabili cadute e concessioni sul tema delle libertà individuali e dei diritti civili).

Problemi emergono anche nella Margherita, divisa fra un'area autenticamente liberale (anche cattolica), il rinnovato patriottismo degli ex popolari e l'impostazione modernizzante di Rutelli, peraltro fondata incredibilmente sulla corrente teodem di Paola Binetti e Luigi Bobba.

Può darsi che questo composito universo di idee, di gruppi dirigenti possa alla fine aggregarsi in una qualche formazione partitica o similpartitica all’insegna della gestione del potere. Ma questo andazzo trasforma un grande progetto politico come quello del Partito democratico in un piccolo espediente tattico.

Per quel che capisco di politica mi sembra di poter dire che non si costruisce un partito con un solo punto nell'agenda consolidare gli equilibri esistenti, politici e di potere. Vedere a questo proposito come, a livello locale, si vanno preparando i prossimi congressi. L'attività politica prevalente non è aprire una discussione, dare la parola chiamare a iniziative pubbliche coinvolgendo così iscritti e non iscritti, ma è quella relativa alla attenta allocazione delle tessere delle persone ed al relativo "traffico". Perché il congresso non comporti il minimo rischio. Perché tutto sia noto e definito in anticipo.

Ma questa logica (dire e non dire, garantire e rassicurare tutti sulla base di finti accordi e di generici discorsi) è mortale per la prospettiva del Partito democratico. C'è chi pensa che questa sia la politica. Invece è la ragione per cui ci sono diffidenza, rifiuto e negazione della politica.

Non è in questo modo che si parla alla società italiana.

Soprattutto alla parte più giovane e dinamica di essa dove è presente una domanda di libertà, di modernizzazione e di protagonismo che non trova risposta né nel populismo reazionario del centrodestra, ne nel doroteismo dei moderati di centrosinistra, né nel radicalismo conservatore della sinistra massimalista.

Le stesse difficoltà di questa fase del governo e della maggioranza di centrosinistra fanno toccare con mano cosa significhi la mancanza di una sinistra moderna, capace di unire rigore nella spesa e nella pubblica amministrazione, liberalizzazione dei mercati, difesa intransigente dei diritti individuali e una moderna e dinamica politica di giustizia sociale. Una sinistra capace di interpretare l'Italia dei «creativi», dei lavoratori qualificati, della borghesia non protetta e non protezionista, dell'intellettualità non provinciale, consapevole dei nuovi orizzonti in cui dobbiamo vivere. Un'Italia, che è insofferente delle permanenti incrostazioni stataliste e corporative.

Solo un’elaborazione politica nuova può intercettare questa parte decisiva del nostro paese. Occorre puntare su una linea di cambiamento, coerente con i tentativi innovatori emersi nell’Europa di questi anni: da Blair a Zapatero a Ségolène Royal. Una linea capace di ridefinire ed agire eguaglianza e libertà in un tempo in cui i valori dell'individuo hanno assunto un'importanza non minore dei valori collettivi e solidaristici e i conflitti post-materiali quanto meno eguagliano il peso dei tradizionali conflitti sociali.

I principi del partito democratico

I principi del partito nuovo possono essere sviluppati a partire dal suo nome, "partito democratico". La democrazia è un compito mai finito e anche i regimi "più democratici" che oggi conosciamo sono ben lontani da un ideale che riusciremo solo ad approssimare, mai a raggiungere compiutamente.

- Un ideale di cittadini colti e informati, in condizioni di indipendenza e sicurezza economica, che si confrontano con poteri pubblici limitati e trasparenti,

- una società civile densa di associazioni intermedie, di gruppi animati da diverse concezioni etiche e religiose, ricca di strumenti di formazione e informazione di alta qualità, autonomi e critici.

Cittadini, dunque, che dispongono di molti strumenti per controllare l’esercizio dei poteri pubblici e di forte motivazione a farlo; di conseguenza, cittadini capaci di ricondurre quei poteri nei limiti del ruolo che è loro proprio in una società liberale.

La democrazia rappresentativa, la democrazia come competizione regolata, come concorrenza per conquistare la maggioranza dei voti, è sempre soggetta a rischio. E’ minacciata dalla ricchezza, dalla cattura da parte dei poteri economici più forti. E’ minacciata dal populismo, da scorciatoie politiche illiberali che fanno leva su emozioni irrazionali, da possibili "tirannie della maggioranza".

Dal lato opposto è minacciata dalla frammentazione e dall’anarchia, dall’inasprirsi delle differenze tra gruppi con diverse concezioni del bene, dalla loro indisponibilità a sottoscrivere un patto di cittadinanza, a riconoscere le mediazioni politiche che questo patto comporta.

I rimedi contro queste minacce stanno in parte nel disegno costituzionale: la volontà della maggioranza, non deve mai travolgere i diritti e le autonomie dei singoli.

Ma non c’è difesa costituzionale che regga se la società civile non è pluralistica, critica, raziocinante, disposta alla mediazione politica: il partito democratico deve impegnarsi a rafforzare questo tipo di società.

1. Una società in cui, quali che siano le concezioni del bene condivise dai singoli e le identità culturali e religiose in cui essi si riconoscono, tutti sottoscrivano un robusto patto di cittadinanza e si mantengano nei limiti che esso comporta, limiti che escludono l’imposizione della propria idea del bene a chi non la condivide.

2. Una società che tenga sempre sotto controllo i rapporti tra poteri economici e politica.

3. Una società le cui regole stronchino la formazione di rendite.

4. Una società in cui il rischio imprenditoriale sia premiato, e così anche il merito e il successo in ogni campo di attività, ma il premio non sia mai lasciato degenerare in monopolio, o rendita, o potere d’influenza in altre "sfere" della società.

5. Una società in cui gli strumenti di controllo che impongono la "rendicontazione" del potere politico siano forti e attivamente esercitati da soggetti autonomi rispetto alla politica, in particolare da una stampa e da media liberi da condizionamenti e conflitti di interesse.

6. Una società in cui forti ed esercitati siano gli strumenti di sanzione delle regole che la società si è data: l’indipendenza e la (spesso dimenticata) efficienza della magistratura, un disegno di agenzie indipendenti in settori delicati dell’economia e delle istituzioni, sono pezzi essenziali di una società civile.

Dove sta la sinistra in tutto questo?

La sinistra sta nella stessa natura della democrazia, nella sua tensione verso l’eguaglianza.

Quella tensione che i conservatori non vogliono sviluppare per i rischi di tirannia della maggioranza, e di "esproprio dei ricchi", che essa comporta. Quella tensione che, invece, la sinistra riformatrice vuole utilizzare e incanalare, per spingere la democrazia "effettivamente esistente" a traguardi più avanzati, ma non contraddittori con l’ispirazione liberale.

La tradizione socialista richiama l’attenzione sulle condizioni sociali ed economiche di effettiva emancipazione,

- il reddito e la sua sicurezza,

- l’istruzione e la cultura e la loro qualità e diffusione

- l’inclusione sociale e le reali possibilità di partecipazione politica dei singoli cittadini.

Poche cose sono altrettanto essenziali ad un avanzamento della qualità democratica delle democrazie effettivamente esistenti di queste condizioni "materiali": moltissimo rimane da fare anche nei paesi in cui la democrazia "effettivamente esistente" ha raggiunto i suoi livelli più elevati.

Dai principi alla azione politica

Questi principi ci possono aiutare nella costruzione di una società civile e di una democrazia migliore. Non si tratta di un compito facile perché la concorrenza, l’assunzione di doveri insieme alla pretesa di diritti, l’eliminazione di rendite grandi e piccole, e tutti gli orientamenti che abbiamo prima descritto hanno costi, comportano il sacrificio di interessi richiedono una forte tensione civile. Basta che la tensione si allenti e tutto precipita:

- le rendite tornano a formarsi, i doveri si dimenticano, la concorrenza si inceppa, le situazioni di sofferenza economica e di disagio sociale sono dimenticate.

Il problema non consiste quindi nella difficoltà di derivare dai principi soluzioni ad essi corrispondenti: è anzi ingannevolmente troppo facile derivarle. Il problema consiste nel dar loro gambe politiche, nel trovare consenso, nel creare una maggioranza che le sostenga.

Quattro questioni decisive

La prima è la preparazione di un’agenda delle riforme. I "democratici" non possono non sapere che sono arrivati al dunque

- il problema degli interventi sulla Pubblica amministrazione

- i problemi connessi con le riforme previdenziali,

- la riorganizzazione del mercato del lavoro e il connesso problema degli ammortizzatori sociali,

- il deficit culturale e formativo del paese con relativa crisi di scuola, Università e ricerca,

- la liberalizzazione dei servizi pubblici locali.

E' vero che, nel nostro Paese, le riforme si sono sempre fatte sotto la pressione degli eventi. Si tratta però di una tradizione da cambiare, per dare ai cittadini un'idea del percorso riformatore che il Partito Democratico intende perseguire.

La seconda, direttamente collegata alla prima, sta nell'assenza di un soggetto riformatore ben definito e di un'élite riformatrice che lavori insieme,: oggi i "democratici" stanno in luoghi diversi, ognuno con i propri entourage di tecnici e intellettuali. Spesso non si parlano tra loro e le iniziative degli uni sono una sorpresa per gli altri. Il Partito Democratico deve mettere fine a questa situazione e costituire questo spazio comune e condiviso.

La terza è l'assenza di una egemonia culturale riformista nella sinistra. Nel nostro paese la sinistra tradizionale è ancora forte; è imbevuta di una cultura statalista, quando non addirittura classista; è strettamente collegata a sindacati potenti che difendono interessi protetti dalla legislazione del passato, frutto di circostanze storiche che si sono chiuse da tempo. In questo paese i riformisti non sono riusciti (sinora) a far passare l'idea che la vera sinistra, la nuova sinistra, quella adatta al Ventunesimo secolo, sono loro, non la sinistra tradizionale.

- Non sono riusciti a rendere egemone l'idea che il liberalismo, in un paese di corporazioni, si sposa perfettamente colla equità che la concorrenza si sposa con la giustizia.

- Non sono riusciti a far diventare obiettivi di sinistra. la lotta incessante contro le rendite, il premio al merito, i doveri insieme ai diritti.

Fino a quando non lo faranno, la sinistra tradizionale avrà buon gioco (e qualche ragione) a rappresentare i "democratici" come dei dorotei moderati, succubi del pensiero conservatore. Il Partito democratico deve essere l'occasione per una riscossa culturale dei riformisti.

La quarta questione riguarda le forme della politica e la partecipazione dei cittadini alle scelte. Le primarie ci insegnano che la partecipazione politica viene considerata attraente se non implica una «appartenenza» totalizzante e se, al tempo stesso, l’atto della partecipazione ha una influenza immeditata, riconoscibile, rilevante.

È difficile attendersi che, oggi, le persone non attratte dalla «politica come professione» tornino a frequentare in quote significative e in maniera continuativa le sedi di partito.

È invece realistico attendersi che molte persone siano disposte ad andare se invitate a dire la loro in maniera puntuale e influente,

- per eleggere direttamente i leader,

- per scegliere i candidati alle principali cariche di governo,

- per esprimere attraverso referendum di indirizzo la propria opinione.

Questo è l’unico modo attraverso cui, oggi, i partiti possono tornare ad essere un po’ meno società di professionisti e un po’ più associazioni di cittadini.

Se vuole essere veramente aperto, il partito democratico deve quindi essere basato su una forma di adesione individuale il più possibile agevole, semplice, immediata. Una adesione che naturalmente non esclude, anzi magari prelude ad una militanza più intensa e stabile, essendo chiaro che ci saranno intensità differenziate di partecipazione e di esercizio dei diritti connessi all’adesione. Occorre insomma rendere amichevole l'accesso alla vita del partito e aiutare così il costante rinnovamento della sua base associativa.

- L’adesione individuale dovrebbe consistere sostanzialmente nell’autorizzazione ad inserire il proprio nome nell’Albo dei sostenitori del Partito, nella sottoscrizione di un manifesto programmatico e di uno statuto, nel versamento di una quota annuale ragionevolmente contenuta.

- è cruciale che l’adesione implichi il diritto a partecipare in maniera diretta alle principali scelte riguardanti l’indirizzo politico e la selezione dei dirigenti. Mentre dovrebbe essere radicalmente esclusa, qualsiasi forma di voto per delega

La formazione di un consenso sui principi ed intorno a questi quattro problemi è una difficile operazione politico/culturale. Ma il Partito Democratico o è questa operazione o è peggio di nulla e il tempo che passiamo a discuterne è tempo perso.

gennaio 2007

Massimo Negarville

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