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Falomi: relazione di minoranza sul lodo Gasparri
10.07.2003
Voglio innanzitutto ringraziare i colleghi dell'opposizione che hanno voluto farmi l'onore di rappresentare all'Aula il senso di una battaglia politica che tutti insieme abbiamo condotto in Commissione nel tentativo di correggere le gravi storture del disegno di legge alla nostra attenzione.

Come sempre accade quando sono in gioco gli interessi concreti del Presidente del Consiglio, fretta e sordità a qualunque proposta di modifica sono state la bussola che ha guidato l'atteggiamento del Governo a cui ha fatto da supporto una maggioranza costretto al ruolo di chi deve soltanto alzare la mano.


A differenza dell'allora opposizione che con circa 6000 emendamenti bloccò in Commissione il tentativo del precedente Governo di dare un nuovo assetto al sistema radiotelevisivo italiano, l'attuale opposizione si è sforzata di entrare nel merito dei problemi e di costruire un confronto vero nella speranza di far uscire dalla Commissione un testo più corrispondente agli interessi generali del Paese e del suo assetto democratico.


Hanno prevalso, invece, gli interessi particolari del Presidente del Consiglio.


Le modifiche positive introdotte dalla Camera dei Deputati sono state cancellate e si è tornati, peggiorandolo, al testo originario del Governo ignorando gli apprezzamenti positivi che, ad eccezione del gruppo Mediaset, sono stati espressi dalle Autorità indipendenti interessate e da tutti i soggetti auditi all'inizio della discussione in Commissione.


Tutto ciò a dispetto delle solenni affermazioni del Presidente del Senato della Repubblica che aveva auspicato per una materia come questa, giustamente considerate bagaglio delle riforme istituzionali, un approccio bipartisan.


Ma soprattutto nonostante e contro il Messaggio del Presidente della Repubblica.


Un anno fa, o norevole Presidente e o norevoli colleghi, per l'esattezza il 23 luglio dell'anno scorso, il Presidente Ciampi inviava alle Camere il suo primo messaggio da Presidente della Repubblica.


Il fatto che avesse scelto il tema del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione per questo suo primo rapporto con il Parlamento, dava il segno e la misura della centralità che l'argomento assumeva perché una democrazia possa dirsi compiuta e per un Paese come il nostro afflitto dal più gigantesco conflitto di interessi che una democrazia occidentale conosca proprio nel settore della comunicazione e dell'informazione.


Vi era, in quel Messaggio, un invito esplicito al legislatore che si apprestava a discutere una nuova legge di sistema, a considerare come parametri obbligatori, da garantire in ogni caso," i concetti di pluralismo e di imparzialità diretti alla formazione di una opinione pubblica critica e consapevole, in grado di esercitare responsabilmente i diritti di cittadinanza democratica".


I richiami aperti e puntuali alle disposizioni di legge e alle sentenze della Corte Costituzionale in materia di divieto di posizioni dominanti e di limiti antitrust, davano la misura del valore che il Messaggio attribuiva loro come strumenti di garanzia effettiva del pluralismo e della concorrenza.


Vi era, nel messaggio presidenziale, l'affermazione forte che nella nuova legge fosse considerato che lo spazio da riservare nei mezzi di comunicazione alla dialettica delle opinioni è un fattore di bilanciamento dei diritti della maggioranza e della opposizione.


Nel suo Messaggio il Presidente Ciampi indicava alcuni obbiettivi essenziali:


- che occorresse tradurre in norme i principi contenuti nella legislazione vigente e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale;


- che si tenesse presente, per quanto riguarda la radiotelevisione il ruolo centrale del servizio pubblico;


- che si dovesse dare attuazione alle recenti quattro Direttive Comunitarie in materia di comunicazioni elettroniche:


- che fosse data attuazione al nuovo Titolo V della Costituzione per l'attivazione della competenza concorrente delle Regioni in materia di comunicazione;


- che fossero meglio garantiti i diritti dell'opposizione e delle minoranze.


Cosa resta di tutto ciò nella legge che stiamo discutendo ?


Poco o nulla e quel poco che c'è si muove nella direzione opposta a quella del Messaggio del Presidente della Repubblica.


Non siamo di fronte ad una legge di sistema. Dopo la legge Cirami e al "lodo" sull'impunità del Presidente del Consiglio, siamo di fronte, all'ennesimo lodo - il "lodo Gasparri".


Il lodo che garantisce al Presidente Berlusconi che le sue televisioni, il suo impero editoriale non saranno toccati né da limiti antitrust, né da sentenze della Corte Costituzionale con buona pace dei valori del pluralismo e della concorrenza.


Siamo di fronte alla più clamorosa delle tante manifestazioni del conflitto di interesse a cui abbiamo assistito in questi due anni.


E non sarà certo la foglia di fico di un Presidente del Consiglio che esce dalla riunione del Consiglio dei Ministri al momento del varo di questo testo che potrà nascondere la realtà di questa legge-scandalo.


Parlare di scandalo non è una esagerazione della opposizione.


Per capire che siamo di fronte ad un testo di legge fatto su misura degli interessi editoriali dell'On. Berlusconi, basta verificare gli effetti concreti delle norme decise dalla Commissione.


Si comincia innanzitutto con l'azzoppare il concorrente diretto del gruppo Mediaset - la RAI - con un processo di privatizzazione fatto in modo da non turbare in alcun modo i sonni del Dott. Confalonieri.


Infatti, si sa quando comincia ma non si sa quando finisce.


Il risultato sarà che avremo una RAI con un assetto proprietario debole e polverizzato spacciato per public company; una RAI con affollamenti pubblicitari e risorse finanziarie da canone che rimangono le stesse di una azienda interamente pubblica in modo che il Gruppo Mediaset non abbia nulla da temere; una RAI pronta, a partire dal 2005, per essere smembrata e venduta a pezzi e tra questi pezzi, magari, c'è anche quella RAIdue che si vuole trasferire a Milano; una RAI appesantita da nuovi compiti senza che le vengano fornite le risorse finanziarie per fronteggiarli. Si pretende, infatti, che la RAI arrivi, entro la fine di quest'anno, con otto canali digitali nelle case del 50 per cento degli italiani ed entro il prossimo anno in quelle del 70 per cento della popolazione. Una impresa tecnico-finanziaria enorme, da fare in tempi strettissimi, per la quale, però, non c'è una lira.


Nulla rimane, insomma, del richiamo del Presidente Ciampi "al ruolo centrale del servizio pubblico", del Trattato di Amsterdam che collega il servizio pubblico radiotelevisivo all'esigenza di preservare il pluralismo dei mezzi di comunicazione.


Men che mai rimane qualcosa della speciale funzione che tutta la giurisprudenza costituzionale assegna al servizio pubblico radiotelevisivo: quella di garante del pluralismo "interno" del sistema, essendo quello "esterno" affidato ad una pluralità di operatori privati.


Tra le forze di centro-sinistra ci sono, come è noto, posizioni diverse sul futuro della RAI. Nessuna di queste, però, mette in discussione l'esistenza di un forte servizio pubblico radiotelevisivo. Si discute con quante reti o con quale modello di organizzazione la RAI può meglio svolgere la sua funzione. Ma questa non viene mai messa in discussione.



Il ddl Gasparri, invece, in controtendenza con l'impegno di tutti gli altri Paesi europei a rafforzare i loro servizi pubblici radiotelevisivi, mette in atto una operazione di privatizzazione sbilenca che senza nemmeno offrire i vantaggi concorrenziali di una vera privatizzazione, indebolisce gravemente il ruolo e la funzione del servizio pubblico.


Dimezzato in questo modo il ruolo del principale concorrente del gruppo Mediaset, il testo di legge al nostro esame si preoccupa di evitare che nuovi potenziali concorrenti possano affacciarsi sul mercato radiotelevisivo.


E' il caso del gruppo Telecom al quale si consente una presenza nel settore integrato delle comunicazioni pari alla metà di quella consentita al gruppo Mediaset.


Una palla al piede giustificata dal Governo e dal Relatore con l'enorme divario di dimensioni e di fatturato esistente tra il gruppo Telecom e le emittenti televisive nazionali.


Di per sé la scelta di misure asimmetriche rientra nella prassi di regolazione dei mercati.


Ciò che non è accettabile è che quando si tratta di tenere a bada un concorrente forte allora si invocano i vincoli asimmetrici. Se, invece, questi vincoli vengono invocati , come abbiamo fatto in Commissione, per proteggere concorrenti deboli, allora vengono respinti come lacci e lacciuoli che impediscono al mercato di crescere liberamente.


I gruppi della opposizione hanno proposto in Commissione vincoli asimmetrici per evitare che giornali quotidiani, emittenti radiofoniche nazionali, radio e TV locali siano fagocitate dal gruppo Mediaset, ma in questo caso la sproporzione di dimensioni e di fatturato non ha impedito al Governo e alla maggioranza di rigettarle, senza alcuna motivazione.


Capisco che non è facile spiegare perché si adoperano due pesi e due misure, spiegare che ciò che vale per Telecom nei confronti del gruppo Mediaset non vale per Mediaset nei confronti della carta stampata o nei confronti delle radio nazionali e delle emittenti locali.


Azzoppata la RAI, tenuto a debita distanza il gruppo Telecom, rimaneva aperto il problema di come garantire al gruppo editoriale del Presidente del Consiglio non solo di mantenere intatta tutta la sua forza ma di creare le condizioni legislative che consentissero di accrescerla ulteriormente.


A questo scopo andavano rimossi due grossi ostacoli: le ripetute sentenze della Corte Costituzionale tese a far rispettare il principio che nessun soggetto titolare di concessione televisiva nazionale possa disporre di più del 20 per cento dei canali TV nazionali e il limite del 30 per cento posto dalla legge 249/97 alla raccolta delle risorse economiche sul totale di quelle complessive calcolate, però, su un mercato molto più ristretto di quello previsto da questo testo di legge del sistema radiotelevisivo.


Il testo di legge al nostro esame abbatte senza troppi complimenti quegli ostacoli.


Alla Corte Costituzionale che con la sentenza 466/2002 aveva stabilito che dopo il 31 dicembre di quest'anno, Rete Quattro e Telepiù nero non potessero più trasmettere su frequenze terrestri in tecnica analogica, viene dato un vero e proprio schiaffo.


Nonostante l'Alta Corte avesse escluso la tollerabilità di una protrazione del regime transitorio fino alla realizzazione di un congruo sviluppo dell'utenza satellitare, via cavo e di sistemi alternativi alla diffusione analogica, e avesse affermato la necessità della fissazione di un termine finale che fosse assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile, il ddl governativo che stiamo esaminando concede a Rete Quattro e a Telepiù nero, dopo anni e anni di sanatorie e rinvii, una ulteriore proroga dai confini temporali indefiniti.


Un tempo in più che nelle intenzioni del Governo dovrebbe servire a far partire otto nuovi canali televisivi digitali raggiungibili dal 50 per cento della popolazione.


L'idea è quella di allargare il numero dei canali televisivi nazionali, sommando canali analogici e canali digitali, in modo che, fermo rimanendo il limite del 20 per cento al possesso da parte di un unico soggetto di canali TV, si possa ampliare il numero delle reti televisive oltre il limite di due stabilito dalla Corte.


Si tratta di uno specchietto per le allodole per mascherare la vera sostanza di quell'idea.


Si ignora, innanzitutto, che la Corte Costituzionale nel fissare al 31 dicembre il termine per la cessazione del regime transitorio che consente a Rete Quattro e a Telepiù nero di trasmettere su frequenze analogiche - come, peraltro, aveva stabilito anche l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni - ha chiaramente detto che quella scadenza prescinde dal "raggiungimento della prevista quota di famiglie digitali".


Se prescinde perché prorogare il termine fino alla attivazione di otto canali digitali terrestri, cioè di una delle "famiglie digitali" di cui parla la Corte ?


Anche l'idea di sommare canali analogici e canali digitali terrestri è un banale trucco per tutelare le proprietà del Presidente Berlusconi.


Così come è un trucco mettere sullo stesso piano canali televisivi nazionali che per legge e di fatto sono visibili da oltre il 90 per cento della popolazione e canali televisivi digitali che in base a questa proposta di legge saranno teoricamente visti dal 50 per cento della popolazione, ma in pratica solo da quelli che hanno deciso di acquistare il ricevitore per il digitale terrestre.


Anche l'idea di mettere insieme canali generalisti con canali tematici la cui audience, come è noto, è dieci volte inferiore a quella dei primi, rende risibile e inconsistente il nuovo modo di calcolare il limite del 20 per cento.


Alla RAI, come ho gia detto, si dà la scadenza del 31 dicembre di quest'anno per far partire otto nuovi canali digitali terrestri. Tempi strettissimi, tempi impossibili.


Vorrei che il Relatore e il Ministro spiegassero a quest'aula e all'opinione pubblica per quale misteriosa ragione si danno, invece, al gruppo Mediaset ben diciotto mesi di tempo per fare la stessa cosa.


Si vuole costringere la RAI a svenarsi per far decollare un mercato per poi entrarci, una volta dissodato il terreno, più comodamente e senza affanni ? O si vuole molto più banalmente guadagnare tempo ed eludere, ancora una volta, l'obbligo di rispettare le sentenze della Corte?


Come dice il proverbio, l'appetito vien mangiando. Per questo il testo al nostro esame non si accontenta di garantire al gruppo Mediaset ciò che ha.


Come dice la canzone "si può dare di più". E il Ministro Gasparri non se lo fa ripetere due volte.


Il gruppo Mediaset vuole avere un suo giornale quotidiano, vuole acquistare una emittente radiofonica nazionale, vuole controllare anche un po’ di emittenti radio e TV locali ?


Non c'è problema. Il SIC, il sistema integrato delle Comunicazioni è lì apposta per far felice il Presidente del Consiglio.


Mettendo insieme in un unico calderone oltre al tradizionale mercato televisivo, radiofonico ed editoriale anche Internet, la produzione cinematografica, la vendita di compact disc, le affissioni pubblicitarie, l'editoria libraria, si allarga in modo così abnorme il totale su cui calcolare il 20 per cento delle risorse economiche che un unico soggetto può raccogliere, da rendere quel limite antitrust del tutto evanescente, autorizzando così nuovi e pesanti processi di concentrazione nelle mani di chi non è certo difficile indovinare.


Che il SIC non trovi riscontro in nessuna parte del mondo e che l'Autorità garante della concorrenza dica che esso contrasta con le nuove direttive europee in materia di comunicazione elettronica - quelle esplicitamente richiamate dal Presidente Ciampi nel suo Messaggio - e che quel limite del 20 per cento è " privo di ogni efficacia preventiva nell'evitare i rischi di creazione di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo" non sembra impressionare più di tanto il Ministro Gasparri.


Che non si impressiona nemmeno del fatto che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, solo pochi giorni fa, ha rivolto alla Concessionaria di pubblicità di casa Mediaset un formale richiamo per aver sforato, ai sensi dell'articolo 2, comma 8, lettera (e, i limiti della raccolta pubblicitaria.


Per tutta risposta, il Governo ha semplicemente cancellato la norma.


La Camera dei Deputati, in un sussulto di sensibilità per l'interesse generale del Paese e coerentemente con il senso e il significato del Messaggio di Ciampi, oltre che delle prese di posizioni delle Autorità indipendenti del nostro Paese, aveva, con l'articolo 15 proposto dalle opposizioni, corretto l'originario testo del Governo.


Una correzione apprezzata da tutti tranne che dal gruppo Mediaset.


La Commissione ha ripristinato il vecchio testo riuscendo persino a peggiorarlo.


Sono state, infatti, introdotte norme che prima non c'erano, che fanno crescere gli introiti pubblicitari del gruppo Mediaset.


Sanando ex-post un comportamento illegale del gruppo di proprietà del Presidente del consiglio, frutto di una interpretazione disinvolta e interessata delle leggi vigenti, contestata, peraltro, da una parere del Consiglio di Stato, la proposta in discussione sottrae telepromozioni e televendite ad ogni limite orario, lasciando in piedi solo limiti giornalieri.


Questo consentirà di piazzare nelle fasce orarie più privilegiate, quelle telepromozioni e quelle televendite che sicuramente non andranno in o nda la notte o nelle fasce orarie meno appetibili pubblicitariamente.


Una ulteriore concentrazione di risorse, dunque, un ulteriore danno alla carta stampata che si vede sottrarre altre risorse in un quadro già pesantemente anomalo rispetto al resto dell'Europa.


Al ministro Gasparri che nelle interviste cerca di giustificarsi e di nascondersi dietro le direttive europee in materia, vorrei ricordare che in quelle direttive ci sono anche altre disposizioni che ci si guarda bene dal recepire in questa legge e che, soprattutto, quelle direttive consentono agli Stati una legislazione più restrittiva quando sono in gioco i valori del pluralismo e della concorrenza.


Non mi pare che in Italia questi valori siano così saldamente presidiati da non giustificare misure più restrittive in materia di affollamenti pubblicitari.


Ma non c'è solo il SIC a dare il via a nuovi e imponenti processi di concentrazione.


Anche nel settore dell'emittenza locale si preparano nuovi pesanti attacchi a quella pluralità di operatori che è la condizione necessaria anche se non sufficiente perché il sistema della comunicazione possa dirsi pluralista.


Combattere la situazione di polverizzazione che contraddistingue l'emittenza radiotelevisiva locale è giusto. Gli emendamenti presentati dalla opposizione vanno in questa direzione.


Altra cosa è, invece, introdurre norme, come fa il testo in discussione, che privilegiano un limitatissimo gruppo di emittenti televisive regionali accrescendo i problemi e le difficoltà di tutte le altre.


Secondo quanto ha apertamente denunciato l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, aver allargato da uno a tre il numero delle concessioni consentite ad uno stesso soggetto in ambito regionale può significare che il 50 per cento delle reti regionali possono cadere nelle mani di un solo operatore e che due soli operatori possono controllare tutte le TV regionali.


Se a ciò si aggiunge la norma, presente in questo testo, del cosiddetto "traino pubblicitario" che consente alle grandi concessionarie di pubblicità - leggi Publitalia - di raccogliere pubblicità anche per le emittenti locali, accrescendo il grado di dipendenza economica delle radio e delle TV locali dalle televisioni nazionali - leggi le TV del Presidente del consiglio - le nostre preoccupazioni per il pluralismo diventano ancora più forti.


E non saranno i nuovi scenari tecnologici a risolvere i problemi.


Come ha giustamente sottolineato il Presidente Ciampi nel suo Messaggio il pluralismo e l'imparzialità dell'informazione non potranno essere conseguenza automatica del progresso tecnologico.


Le nuove tecnologie di trasmissione (il cosiddetto digitale terrestre) sono state giustamente salutate positivamente per la loro capacità di porre fine a quell'era di scarsità delle frequenze e di canali che ha pesantemente limitato la possibilità di dar vita ad un assetto veramente concorrenziale e pluralistico del sistema radiotelevisivo.


La possibilità di moltiplicare per quattro o per sei un canale che irradia il segnale radiotelevisivo in tecnica analogica mette di fronte a uno scenario - stando almeno a quanto stabilito dal Piano delle frequenze per la televisione digitale terrestre approvato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il 29 gennaio scorso - nel quale sono potenzialmente attivabili dagli 8 ai 60 programmi nazionali e 24 programmi irradiabili in ciascuna delle 21 Regioni o Province a statuto speciale. Questa straordinaria abbondanza di canali può diventare realtà soltanto se si verificano condizioni che il provvedimento all'esame non solo non prevede ma addirittura ostacola. La prima condizione per poter attivare il servizio digitale terrestre è quella della disponibilità di frequenze sulle quali far viaggiare i nuovi canali digitali terrestri. L'occupazione abusiva dell'etere e le successive e numerose sanatorie che hanno fotografato ex-post la situazione hanno determinato una gravissima carenza di frequenze che non ha paragoni con il resto di Europa.


Secondo i dati dell'ERO in Italia vi sono 23.500 frequenze utilizzate. Un numero enormemente più alto delle 12.455 frequenze utilizzate dalla Francia o delle 10.099 utilizzate dalla Germania.


E' del tutto evidente che senza liberare frequenze il digitale non può partire. Esse sarebbero disponibili se il provvedimento recepisse quanto disposto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 466 del 20 novembre 2002 che stabilisce la scadenza del 31 dicembre 2003 per il passaggio su satellite - con conseguente liberazione delle loro frequenze terrestri - di Rete Quattro e di una delle reti analogiche di Telepiù.


Il disegno di legge, così come approvato dalla Commissione ci mette di fronte ad un vero e proprio aggiramento della sentenza della Corte perché consente a quelle emittenti di proseguire le loro trasmissioni in tecnica analogica fino al 2006, cioè fino al passaggio completo del sistema radiotelevisivo dall'analogico al digitale.


L'effetto delle modificazioni introdotte, combinato con la possibilità, prevista dal testo al nostro esame, di trasformare tutti coloro che a qualunque titolo esercitano attività radiotelevisiva in operatori di rete digitale, è dunque quello di trasferire lo stesso caos delle frequenze analogiche nel nuovo ambiente digitale e di porre un serio ostacolo al passaggio al digitale, dando un serio colpo al processo di innovazione tecnologica del sistema radiotelevisivo.


Si sancisce, inoltre, la discriminazione nei confronti di chi - come Europa sette - ha ottenuto dallo Stato una regolare concessione ma non le frequenze per poter trasmettere su scala nazionale.


A queste valutazioni si è obbiettato che attraverso il commercio delle frequenze, consentito dalla legge n. 66 del 2001, può essere avviata comunque una fase di sperimentazione del digitale.


Affidarsi, però, al solo mercato della compravendita delle frequenze, vuol dire mettere la nuova televisione digitale nelle mani di chi ha già posizioni dominanti sul mercato televisivo, cioè di RAI e di MEDIASET.


Così si ribadisce la promessa di un maggiore pluralismo del sistema radiotelevisivo.


Il passaggio al digitale, oltre al problema appena illustrato della scarsità delle frequenze disponibili, propone un ulteriore problema che ha un suo specifico riflesso sul livello di pluralismo del sistema. E' il problema del finanziamento dei contenuti. Ammesso che si attivino tutti i canali che la tecnologia digitale rende possibili, essi vanno riempiti di contenuti.


Il rischio è che si costruiscano autostrade elettroniche su cui, però, non viaggia nessuno.


Ma se i programmi e i contenuti sono quelli oggi già offerti dalle pay-tv satellitari la loro diffusione attraverso le reti digitali terrestri avrebbe costi enormemente superiori rispetto alle televisioni che trasmettono via satellite.


La trasmissione da satellite riesce a coprire territori molto più ampi di quelli raggiungibili con le tecnologie digitali terrestri, con attrezzature per gli operatori di rete e soprattutto per i cittadini molto meno costose.


In Europa tutti i tentativi di ripetere col digitale terrestre ciò che si può fare col satellite sono falliti e quei pochi esperimenti che sopravvivono hanno un forte supporto di finanziamenti statali, come dimostra il caso della BBC che ha rilevato le attività della fallita ITV.


Il digitale terrestre ha un suo reale spazio di espansione nella fornitura di servizi interattivi.


Ma un canale digitale che fornisce servizi della pubblica amministrazione, servizi bancari, servizi di telemedicina o che consente di vedere, sentire e scaricare musica o videogiochi, cioè contenuti che non hanno nulla a che vedere con la tutela del principio costituzionale della libertà di espressione, non può essere messo nel mucchio dei canali che concorrono alla definizione del limite del 20%.


Almeno per un periodo medio-lungo è difficile attendersi dal digitale terrestre un contributo vero all'innalzamento di quel tasso di pluralismo che tutti dichiariamo di voler perseguire.


E che il periodo di transizione al digitale non sarà breve lo hanno ripetuto, senza eccezione alcuna, tutti i soggetti auditi dalla Commissione.


La data del 2006, come momento di passaggio istantaneo dall'analogico al digitale è irrealistica e il fatto che tale data l'abbia proposta una legge del centro-sinistra non la rende per questo più realistica.


E' del tutto evidente che la transizione debba necessariamente consistere in un processo graduale che, attraverso fasi successive, trasformi le attuali reti analogiche nelle reti digitali così come sono state definite nel Piano di assegnazione delle frequenze per la televisione e la radiofonia digitale terrestre.



Va bene stimolare e accelerare anche legislativamente l'innovazione tecnologica, ma utilizzarla in modo strumentale agli interessi del gruppo MEDIASET significa deprimerne le potenzialità positive


Il Ministro Gasparri, in diverse occasioni, ha magnificato il suo disegno di legge come lo strumento della grande liberalizzazione del sistema radiotelevisivo e della comunicazione.


Lo ha paragonato, quanto a ispirazione, ai provvedimenti di abolizione dei vincoli antitrust decisi dalla americana FCC, ignorando che con un voto bipartisan il Senato degli Stati Uniti ha ripristinato quei vincoli.



Se per liberalizzazione si intende un accrescimento del numero dei competitori e della concorrenza non si può che essere d'accordo.


E' anche attraverso questa via che il sistema diventa più pluralista e meglio in grado di tutelare la libertà di espressione.


Ma il processo di liberalizzazione ha un contenuto e regole diverse a seconda della situazione di partenza e l'Italia parte da una situazione di elevata concentrazione, con forti barriere all'entrata a livello nazionale e da una altissima polverizzazione a livello locale, frutto di un processo di liberalizzazione selvaggia dell'etere.


Ci si trova, cioè, di fronte ad un mercato fortemente liberalizzato, sia pure in forme selvagge, che, lasciato a se stesso, senza vincoli antitrust, ha prodotto una situazione caotica a cui finora non si è riusciti a porre rimedio.


In una situazione come questa è necessario non allentare i vincoli esistenti ma renderli più funzionali all'obiettivo di riequilibrare il sistema per farlo diventare più pluralista.


Il vostro atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli interessi del Presidente del Consiglio, vi ha portato a fare esattamente il contrario di ciò che sarebbe necessario fare perché il valore della concorrenza e soprattutto quello del pluralismo siano realmente tutelati.


L'attività radiotelevisiva non è come quella di una industria qualsiasi.


Produce informazione, cultura, determina orientamenti, costruisce mode e comportamenti, incide, in definitiva, sulla formazione dell'opinione pubblica.


A tutto questo si aggiunge la particolarità di un mezzo di diffusione - la televisione - che ha una capacità di penetrazione nella società, immediata e capillare, entra in tutte le case e al tempo stesso dispone di una forza persuasiva e di un'influenza sulla formazione dell'opinione pubblica perché dispone, unitamente alla parola, della forza suggestiva delle immagini.


Le disposizioni indicate dal testo al nostro esame ignorano tutto questo.


Ignorano che il pluralismo - inteso come rappresentazione di tutte o del maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali, culturali e religiose, presenti nella società - oltre che un principio è lo strumento con cui si da attuazione alla libertà di espressione così come definita dalla nostra Carta costituzionale.


Libertà di espressione intesa non solo come libertà di esprimere liberamente le proprie idee ma anche come diritto di ogni cittadino ad accedere ad un sistema differenziato e molteplice di fonti da cui attingere conoscenze e notizie.


Come ha detto il Presidente Ciampi, la libertà di espressione è il bene supremo da tutelare, il principio ispiratore da porre a fondamento del sistema radiotelevisivo.


I vincoli che vengono posti al sistema hanno per scopo quello di rendere effettivo questo principio.


E' del tutto evidente che in un settore come quello radiotelevisivo se il grosso delle risorse economiche (la pubblicità) e delle risorse tecniche (le frequenze) è nelle mani di uno o al massimo due operatori, ad esserne colpita è al tempo stesso la libertà di espressione di chi non riesce a entrare in questo mercato e la libertà dei cittadini che possono disporre soltanto di un numero più limitato di fonti di informazione.


Togliendo, come avete fatto, ogni vincolo avete colpito la libertà di espressione.


La Casa delle libertà tra gli interessi e la libertà ha scelto gli interessi, quelli del Presidente del Consiglio. Il Messaggio di un anno fa del Presidente della Repubblica aveva acceso una grande speranza. Adesso voi la state spegnendo.


Antonello Falomi - 7 luglio 2003

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