In una delle tante serate passate a ragionare nelle sezioni dei Ds sul Partito Democratico un ragazzo - uno dei pochissimi che in queste occasioni mi capita di incontrare - mi ha chiesto: «Ma perché il freddo non viene più? Siete in grado, voi politici di fare qualcosa?». Era una strana sera di questo gennaio. Si poteva uscire dalla sala riunioni a fumare senza mettersi il cappotto. Dopo quell'intervento la piacevolezza divenne la percezione di un caldo triste, umido, innaturale, che ti porta via la vita.
La domanda non era del tutto ingenua. C'era dietro, si è saputo poi, una ricerca fatta a scuola, sul consumo energetico e sulle sue conseguenze sull'ambiente, una informazione abbastanza accurata sui tempi di riscaldamento del Pianeta e sui disastri che tutto ciò può riversare sulla vita di tutti noi. A scuola, più che in ogni altro luogo, di queste cose si parla. Con quella domanda, quel ragazzino si liberava di una rimozione che per molti della sua età , che si sono accostati a questi problemi, è la condizione per poter discutere, comunicare, vivere tranquillamente nel presente. Non si vive tranquilli a 16 anni, se si pensa che sulla tua vita incombe una catastrofe possibile. E ci metteva, mi metteva, di fronte alla contraddizione fondamentale del nostro modo di ragionare e di discutere: di proporre cambiamento, innovazione, crescita, futuro, mettendo tra parentesi, o al massimo ricordando come un tema tra i tanti altri, la catastrofe possibile che su quel futuro incombe.
Non si rassegnava quel ragazzo alla catastrofe. Sapeva che era evitabile. E a scuola aveva imparato, e viveva in un Comune che si dava da fare a promuovere, le cose semplici, quelle che stanno nella responsabilità di ciascuno di noi, che occorre fare per rendere quel futuro catastrofico non inevitabile. La raccolta differenziata dei rifiuti, le lampadine che consumano di meno, non lasciare gli elettrodomestici in stand by, etc. Ma proprio perché sapeva che quel futuro catastrofico e probabile, era evitabile, era sorpreso e scandalizzato dalla nostra rimozione da adulti, del nostro metterlo tra parentesi, per continuare a parlare tranquilli dei problemi del giorno dopo, dell'agenda di una politica che era a quel punto per lui la nostra agenda, l'agenda dei politici, e non quelle del Paese, dell'Europa, del mondo, dei ragazzi come lui e dei ragazzi che verranno.
Diciamo spesso che per la prima volta nella nostra storia i giovani e i ragazzi di oggi rischiano di avere condizioni di vita peggiori della generazione precedente. Che peggioreranno i lori salari, la loro sicurezza, la loro possibilità di avere una pensione dignitosa. Tutte cose giustissime, cui stiamo, con la nostra azione di governo, intervenendo positivamente. Ma quel ragazzo ci invitava a riflettere che forse il presupposto fondamentale di un nuovo patto tra generazioni riguarda proprio l'acqua e la terra, l'aria, le piante, le condizioni elementari di vivibilità che lasceremo in dote alle nuove generazioni. Che poi significa ricordare a noi stessi che quando si parla delle possibili catastrofi che possono avvenire nel 2050 - i ghiacciai spariti, l'acqua da bere che non c'è più e l'acqua che può inondare Londra, Napoli, Genova - si parla di un mondo in cui quei ragazzi ci saranno. La rimozione di questa «scomoda verità », come la chiama Al Gore nel suo film, rischia di essere il macigno più pesante rispetto alla credibilità di un progetto politico davvero democratico, la cui essenza sta proprio nella capacità di ricostruire le risorse di cui più palesemente oggi la politica e la società sono carenti: la capacità di collegare gli interessi di ciascuno agli interessi di tutti, di relazionare il nostro agire presente ad una idea del futuro.
È questa rimozione che ci permette di parlare di crescita del Pil, di consumi che devono ripartire alla grande, mettendo tra parentesi gli effetti di quella crescita, di quei consumi, sulle nostre stesse possibilità di sopravvivenza. Che ci ostiniamo ad assumere il Pil come misuratore pressoché esclusivo dei nostri livelli di benessere, considerando come marginali altri indicatori, come la lettura di libri, i livelli di istruzione, la capacità di apprezzare l'arte, l'ambiente - beni che anzi acquistano valore nel momento in cui sono condivisi. E che molti di noi continuano a riproporre, rispetto alla Ue che oggi ci chiede una serie di riduzioni delle emissioni di CO2, l'alibi scontato che non possiamo farlo se non lo fanno tutti gli altri. È davvero il tempo di rovesciare il ragionamento: il futuro, persino la ragione competitiva fondamentale del futuro, sarà di chi dimostrerà che è possibile produrre senza inquinare, crescere senza distruggere risorse. E che a partire da questa finalità investirà in ricerca, in tecnologia, in istruzione e in cultura. Su questo si può oggi rilanciare la stessa idea d'Europa nel mondo. Confrontarsi con gli Stati Uniti, che dello sviluppo dissipatore sono i principali responsabili, e proponendo un nuovo modello possibile ai paesi che crescono vertiginosamente - come la Cina, l'India e il Brasile - avendo come punto di riferimento il Pil e gli standard di consumo dell'Occidente, e che rapidamente, molto più rapidamente di noi, stanno impattando coi limiti che la natura, la cultura, la tenuta sociale, pongono a quel tipo di sviluppo.
L'Europa dal grande passato, l'Europa che ha inventato il futuro, come crescita e progresso, è il luogo più adatto per proporre al mondo un nuovo modo di pensare il tempo: il futuro anteriore, la capacità di pensare e di agire il futuro come fosse già accaduto. Non per rassegnarsi, ma per evitare con lucida consapevolezza, che i disastri prevedibili non diventino veri.
Intervento di Andrea Ranieri - da L'Unità 18 Gennaio 2007
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