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Sviluppo sostenibile e capitalismo non sono incompatibili
6.02.2007
Il modo di produzione capitalistico non sarà sicuramente eterno ed è auspicabile che un giorno si trovi di meglio. Il capitalismo ed il libero mercato non esistono in natura, dunque non fanno parte della tavola periodica degli elementi. La storia corre, le condizioni cambiano. Da laico e relativista, sono portato a storicizzare le istituzioni umane e non posso nemmeno escludere che la stessa famiglia, un giorno di là da venire, venga superata e sostituita da una nuova istituzione. Tuttavia, allo stato delle cose, il capitalismo è la organizzazione produttiva meno peggiore che abbiamo conosciuto. Il modo di produzione capitalistico ha impresso (fin dai tempi della Ia Rivoluzione Industriale dell’Inghilterra) una possente spinta allo sviluppo delle scienze, sia teoriche che applicate. Se la vita media si è allungata ed oggi nel nostro pianeta vivono sei miliardi di persone è perché, grazie al modo di produzione capitalistico, è stato possibile produrre alimenti in grado di sfamarli quasi tutti. Certo, esistono pur sempre sacche di miseria e denutrizione; esistono gravi sperequazioni tra il Nord ed il Sud del mondo, tuttavia si é consentito ad un numero sempre maggiore di individui di soddisfare i propri bisogni primari e di poter ricevere cure. Sono state debellate pandemie che prima potevano mietere vittime pari al 30% della popolazione. Si è consentito agli esseri umani di spostarsi velocemente, arricchendo così la propria cultura ed informazione.

Il capitalismo presenta un problema: è famelico di risorse. E’, per così dire, onnivoro. Produrre alimenti e beni di consumo per un numero sempre crescente di individui, comporta l’uso di una quantità enorme di energia. Se le fonti utilizzate per produrla sono inquinanti e non rinnovabili, la situazione diventa insostenibile. Occorre per questo rinunciare al capitalismo ? Occorre conculcare la naturale aspirazione umana al tornaconto economico ed alla agiatezza, vera spinta al fare, all’intraprendere ? Non credo proprio. Si deve solo cercare un solido compromesso tra consumo ed ambiente. Non esistono alternative; quelle sperimentate (come il comunismo sovietico) hanno prodotto miseria e sottosviluppo e (dal punto di vista ambientale) sono state ancora meno rispettose. Non a caso, la regione del Mar Caspio è una delle più inquinate del pianeta ed il peggior disastro nucleare è accaduto a Chernobyl.

La tecnologia generata dal modo di produzione capitalistico, permette di correggere il tiro; le conoscenze ed i mezzi ci sono. Non occorre tornare ad una società bucolica e pauperistica. Basta solo dimostrare l’utilità economica di scelte rispettose dell’ecosistema, oltre che la loro indispensabilità. Forse qualcuno può storcere il naso non sentendo parlare di valori; faccia pure. La mia sarà anche una visione materialistica, ma credo sia l’unica ancorata alla realtà. Se sbagliamo l’analisi della situazione, saremo sicuramente destinati al fallimento oppure al malinconico ruolo di “testimoni del nostro tempo” che abbaiano alla luna. Non fa per me.

Correggerei dunque alcuni aspetti del modo di produzione capitalistico, ma senza fughe in avanti verso utopie che partono da presupposti che non hanno radici nella storia. La politica ha il compito di favorire una linea virtuosa, con un insieme di incentivi e disincentivi. La produzione di bellezza e cultura è senza dubbio auspicabile. Ma da sola non basta; non potrà mai coprire il 100% della economia e dare lavoro a tutti. Resta pur sempre l’industria del cosiddetto “prato basso”.

Quella di chi fonde metalli, piega lamiera, fabbrica seggiole, automobili, impianti di condizionamento, involucri in plastica per computers e telefoni cellulari e quant’altro. Al bello è possibile pensare quando si sono risolti i problemi basilari. Chi va a teatro per assistere ad una pièce, non deve dimenticare che può farlo perché qualcuno ha prodotto le cose materiali ma terribilmente utili. Se va alla cena del dopo teatro è perché le merci viaggiano sui camion, sulle navi e sugli aerei. Per cui è possibile mangiare il filetto di yak tibetano, anche alla trattoria del teatro. Chi riceve a casa il teleriscaldamento, non deve dimenticare che è possibile perché c’è chi scava solchi per deporvi tubazioni, c’è chi produce tubi, li pulisce con abrasivi perché vi possa aderire la saldatura, li salda, riduce le saldature con spazzole in acciaio.

La grande fioritura artistica del nostro Rinascimento fu possibile grazie alle ricchezze accumulate con la produzione agricola, grazie alla estrazione di minerali, alla organizzazione degli eserciti di ventura (era il caso di Federico da Montefeltro Duca di Urbino) ed al commercio, da parte di committenti illuminati e grazie al fatto che gli artisti venivano retribuiti in maniera generosa, di certo molto al di sopra della media. La fioritura delle botteghe dell’arte e la ressa dei giovani che volevano imparare le tecniche dal Buonarroti, dal Poliziano o da Cimabue derivava sicuramente dalla passione per l’arte, ma anche dalla speranza di migliorare (grazie all’apprendimento di questa) la propria posizione sociale ed economica. Di uomini come San Francesco d’Assisi non ne nasce nemmeno uno al secolo. Non bisogna dimenticarlo e la vita di San Francesco può costituire un insegnamento ma non una linea politica generale.

Se poi si iniziasse a porre un freno all’incremento costante della popolazione, non sarebbe male. Gesù, probabilmente, correggerebbe oggi la frase “crescete e moltiplicatevi” aggiungendo “ma con un minimo di buon senso”.

Claudio Monica
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