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Bipartisan è meglio (di Filippo Andreatta)
25.02.2007

da www.corriere.it del 23 febbraio 2007

La questione di come neutralizzare le divisioni umorali della politica interna per salvaguardare una politica estera degna di questo nome è comune a tutte le grandi democrazie. Quello che contraddistingue l'Italia non è il fatto che vi siano ribellioni nelle ali più radicali, ma il fatto che queste ribellioni abbiano ripercussioni decisive sulla politica estera e sulla stessa stabilità del governo. Negli altri Paesi occidentali, le ribellioni vengono gestite nel quadro di un bipolarismo più maturo, con una convergenza bipartisan che impedisce alle minoranze (nel caso del governo Prodi, a microminoranze di singoli parlamentari) di condizionare le scelte principali in politica estera, come la partecipazione a una missione militare sacrosanta nella forma (legittimata dall'Onu e dal governo di Kabul) e nella sostanza (la lotta al terrorismo di Al Qaeda).

Negli Stati Uniti, il Senato ha approvato l'invio di truppe nella prima guerra del Golfo per 52 voti a 47, con dieci democratici che hanno votato a favore della politica dell'amministrazione di Bush senior, consentendo di superare la sua condizione minorità-ria e il voto contrario di due repubblicani. Nel caso del Kosovo, il Senato ha invece approvato, 78-22, la decisione di Clinton con il voto favorevole di 46 repubblicani, che ha permesso di bilanciare il voto contrario di 13 democratici. Nel caso della guerra in Iraq, infine, l'autorizzazione all'uso della forza è passata con 77 senatori a favore, tra i quali 28 - decisivi voti democratici, e 23 contrari, tra i quali 1 repubblicano. In tutti e tre i casi, se la parte avversa al presidente avesse votato in modo compatto e contrario, gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di intervenire a causa di defezioni nel partito del presidente.

Anche in un sistema parlamentare come la Gran Bretagna, nel quale c'è da aspettarsi una maggiore disciplina di partito, sono frequenti le ribellioni delle ali più radicali e i salvataggi bipartisan in nome dell'interesse nazionale. Ad esempio, l'autorizzazione all'uso della forza contro l'Iraq è stata votata, nel marzo del 2003, da 412 parlamentari, tra i quali 147 Conservatori che hanno permesso a Blair di superare il voto contrario di 84 ribelli laburisti (circa un quarto del gruppo parlamentare di maggioranza).

In Germania, la maggioranza rosso-verde di Schroeder ha invece incontrato difficoltà nel caso del Kosovo (quando 17 verdi non hanno votato a favore de] governo), dell'invio di truppe in Macedonia (quando 30 ribelli dell'Spd hanno reso necessario il soccorso della Cdu e della Fdp alla maggioranza) e dell'Afghanistan (quando il governo si è salvato per due soli voti grazie al rientro nei ranghi, all'ultimo minuto, di quattro di otto dissidenti dei verdi).

In Italia defezioni di questo tipo, di un'entità persino minore come nel caso di mercoledì, hanno invece costretto alle dimissioni il governo e messo a repentaglio la missione in Afghanistan. Da un lato, questo è dovuto alla natura frammentata del nostro bipolarismo, alle coalizioni (entrambe) eterogenee e raffazzonate, alla presenza (in entrambe le coalizioni) di interi partiti ispirati da ideologie radicali e poco inclini alla ragionevolezza. Questo problema potrebbe essere alleviato da accorgimenti istituzionali e regole elettorali che riducano la frammentazione, e da partiti che sappiano mantenere una maggiore disciplina, sebbene, se le maggioranze dovessero risultare così striminzite come alle ultime elezioni, il pericolo di un incidente rimarrebbe comunque in agguato.

Dall'altro lato, questo è dovuto anche all'immaturità del nostro bipolarismo e alla incapacità delle nostre due coalizioni di collaborare nel nome dell'interesse nazionale. Nel contesto italiano, dove gli insulti, le urla e i cori da stadio in Parlamento non sono eccezionali nemmeno quando è in discussione una decisione solenne come una missione militare alla vigilia di un'importante offensiva contro il terrorismo, non viene neanche da chiedersi il perché l'opposizione non abbia soccorso il governo e lo abbia invece indotto alle dimissioni. Fino a quando questa non diventerà una prassi normale, invece che un'eccezione come quando il centrodestra ha votato l'intervento in Kosovo nel 1999 o il centrosinistra quello in Afghanistan due anni dopo, la politica estera italiana rimarrà ostaggio della politica interna, con tutte le sue idiosincrasie eccentriche e i suoi ambigui bizantinismi.

da www.corriere.it

 

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