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La Spagna ci rincorre. E ci insegna (di F. Mosconi)
11.03.2007

Non passa praticamente giorno, da un po' di mesi a questa parte, senza che non si abbia notizia di operazioni italo-spagnole: Autostrade-Abertis, Bnl-Bnva, San Paolo Imi-Santander e via di questo passo, sino alle recentissime Rcs Media Group-Recoletos, Telecom-Telefonica, Enel-Endesa. A conti fatti, non che tutte queste operazioni si siano trasformate in accordi operativi; anzi, in alcuni casi si deve parlare di vere e proprie rotture, mentre altre ancora si trovano in fase di maturazione.

È possibile intravedere una direzione di marcia univoca? Chi è, in altri termini, il "conquistatore"? Ogni operazione, è superfluo ricordarlo, fa storia a sé ed è impossibile tracciare un bilancio seppur provvisorio prescindendo dal merito dei singoli accordi, reali o potenziali che siano.

Quel che forse si può già dire è che nel loro assieme queste operazioni sottolineano le grandi chance di cooperazione nel campo industriale e fi- nanziario insite nel mercato unico europeo.

E questo è vero parlando di Italia e Spagna, così come sarebbe vero parlando di Italia e Germania, Italia e Francia, eccetera.

A ben vedere, oggigiorno, il tema del rapporto con la Spagna va ben oltre le questioni societarie, per quanto importanti esse siano, e finisce con l'assumere un rilievo del tutto particolare alla luce delle dichiarazioni di José Luis Zapatero sul «sorpasso» ai nostri danni. La previsione (profezia?) del premier spagnolo, come si ricorderà dall'ottobre scorso, è quella del sorpasso sull'Italia a opera della Spagna in termini di reddito pro capite nell'arco dei prossimi quattro anni.

Come stanno andando effettivamente le cose? In un bell'articolo sull'ultimo numero del Mulino ( gennaio 2007), Alberto Quadrio Curzio e Valeria Miceli pongono a confronto i due sistemi economici di Spagna e Italia. Con ricchezza di dati e argomentazioni gli autori cercano di fornire alcune prime risposte a una domanda che possiamo riassumere così: sarà proprio sorpasso? Domanda che ne suggerisce un'altra: quanta politica e quanto orgoglio nazionale ci sono nella dichiarazione del premier spagnolo? E quanto invece è fondata su dati autenticamente economici? Rispondere a queste domande non è esercizio semplice, e al riguardo le risposte offerte da Quadrio Curzio e Miceli aiutano a gettare luce sulle tendenze in atto. Prendendo l'indicatore del Pil pro capite, croce e delizia di tutte le comparazioni internazionali, in effetti il recupero spagnolo è impressionante: fatta pari a 100 la media Ue-25, nel 2006 i due paesi si sono collocati proprio nell'intorno della media.

Ma il 99,4 dell'Italia e il 98,1 della Spagna sono frutto di due trend decennali assai diversi. Nel 1997 l'Italia era ampiamente sopra la media europea (114,6), mentre la Spagna si fermava a 87,5. Un tasso di crescita medio annuo del 3,8 per cento nel periodo 1997-2006 per la Spagna contro uno dell'1,4 per cento per l'Italia concorre a spiegare queste diverse performance. È questo un buon motivo in più, visto dall'angolo visuale del governo dell'Ulivo, per mantenere la crescita economica - il «tornare a crescere» - al centro dell'agenda politica riformista di questi anni.

Proseguendo lungo il filone macroeconomico, rilevanti sono altresì le differenze fra i due paesi sotto il profilo della situazione dei conti pubblici.

Lasciando da parte per un momento dati e percentuali ampiamente conosciuti, è difficile sfuggire all'impressione - in verità, è molto più che un'impressione - che qui la variabile chiave risieda nella stabilità politica, e nella forza che da essa deriva per impostare azioni durevoli di risanamento e disciplina fiscale.

I governi, dapprima, di Felipe Gonzales, poi, di José Maria Aznar e ora di Zapatero hanno aperto veri e propri cicli politici, che nei primi due casi si sono anche ampiamente sviluppati (e col terzo che appare ben avviato lungo la stessa strada). Il passaggio da un ciclo all'altro non ha mai stravolto il nocciolo duro - il cuore, potremmo dire - di una politica economica orientata in senso europeista, pur avendo i vari governi idee e sensibilità diverse sulle questioni redistributive.

Da noi la stabilità politica avrebbe dovuto essere la cifra distintiva della cosiddetta Seconda Repubblica: così è stato? E in un tempo nel quale si discute animatamente di riforme istituzionali e di nuova legge elettorale, siamo sicuri che questa sia la prima preoccupazione di tutti gli attori in gioco? O per l'ennesima volta preverranno gli egoismi, la scarsa lungimiranza, la tutela delle rendite di posizione? Come da ultimo il caso spagnolo ampiamente dimostra, una stabilità politico-istituzionale correttamente intesa manifesta i suoi positivi effetti sull'efficacia dell'azione di governo, in primis nel campo della politica economica. A sua volta, tutto ciò presuppone una «classe dirigente adeguata», per prendere a prestito le parole del grande banchiere Raffaele Mattioli che Michele Salvati ha utilizzato, alcuni anni addietro, proprio per spiegare le differenze che si andavano manifestando, nel profondo, fra Spagna e Italia. Con la prima governata da una classe dirigente capace di condividere, al di là delle diverse appartenenze, alcune fondamentali idee sull'avvenire del paese e sul suo ruolo nell'Europa unita.

Il confronto Spagna vs Italia diviene molto interessante anche guardando il piano più squisitamente microeconomico: le dinamiche di crescita delle imprese, nonché le fusioni e acquisizioni transfrontaliere (cross border), alcuni delle quali richiamate giusto in apertura.

Se prendiamo i rami alti dei due rispettivi sistemi (le imprese che stanno all'interno delle Top 100 d'Europa), abbiamo due insiemi non troppo dissimili: 6 o 7 società sia per la Spagna che per l'Italia operanti nella finanza (banche e assicurazioni quali Santader, Bbva, UniCredit, Intesa San Paolo, Generali), nell'energia (Endesa, Repsol, Iberdrola, Eni, Enel) e nelle telecomunicazioni (Telefonica e Telecom).

Ancora: a fronte di una indubbia forza della Spagna nel settore delle costruzioni e della presenza in loco di filiali di multinazionali estere, l'Italia appare caratterizzata da alcune eccellenze nel manifatturiero (a cominciare da una Fiat risanata e rinnovata, senza dimenticare STMicroelectronics e Finmeccanica), che contribuiscono a dare spessore al contenuto tecnologico delle nostre produzioni.

Sotto di queste vi sono poi le quasi 4.000 «medie imprese industriali » del vivaio Mediobanca-Unioncamere, operanti nei settori tipici del made in Italy (la meccanica di precisione, il sistema moda, l'alimentare), ove assai importante è l'innovazione di prodotto e tutte le attività a essa collegate (design, progettazione, marketing, eccetera).

I confronti potrebbero proseguire, andando a vedere qual è la situazione della "media" impresa in Spagna.

Ma i pochi esempi fatti per il nostro paese sono sufficienti, crediamo, per dire che per l'Italia la partita con la Spagna non è persa in partenza e va giocata fino in fondo. D'altronde, condividiamo un mercato unico e una moneta comune: e la stella polare, in questi casi, deve essere quella di «un gioco a somma positiva », in cui un mix di cooperazione-competizione fra paesi dà vita a una torta (della ricchezza) più grande per tutti.

 

di Franco Mosconi da www.europaquotidiano.it del 10 marzo 2007

 

 

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