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La memoria di Biagi, le amnesie della destra (di Bruno Ugolini)
21.03.2007
Non sono amici di Marco Biagi. Non rispettano davvero la sua memoria, i suoi studi, il suo passato, le sue battaglie. Parliamo degli esponenti del centrodestra intenti, in queste ore, a sollevare una canea immonda e strumentale, invece di celebrare con serietà e rispetto la scomparsa del giuslavorista, fratello di studi di Enzo Tarantelli e Massimo D’Antona. Così operando concedono un regalo, oltretutto, a quei brigatisti che lo hanno barbaramente colpito a morte sulla soglia di casa, cinque anni or sono.

Sembra, infatti, leggendo certe sortite polemiche, che gli autori, i “cattivi maestri”, per quel brutale agguato, siano stati donne e uomini della sinistra o del principale sindacato italiano, la Cgil. Un’infamia. Come se Marco Biagi non fosse un figlio della sinistra. Era l'intellettuale che nella prima metà degli anni settanta era responsabile della redazione sindacale della rivista «Quale giustizia». Accanto a collaboratori come Romano Canosa, Angelo Converso, Amos Pignatelli, Umberto Romagnoli, Luigi Saraceni, Nicola Tranfaglia, Luciano Violante. E c’è voluto, ieri, Pier Ferdinando Casini (che pure non risparmia le sue critiche alla sinistra) per ristabilire una verità concreta, ben più dura da digerire delle fumisterie delle parole. Ha detto l’ex presidente della Camera: «Lo Stato non ha saputo proteggerlo». Come tutti ricorderanno era stata infatti negata a Marco Biagi quella scorta, quello strumento concesso a tanti e che avrebbe potuto salvargli la vita. Quelli del centrodestra l’avevano lasciato inerme ed ora sono qui a piangere lacrime di coccodrillo. È impossibile non ricordare un altro odioso episodio. Quello che vide come protagonista, all’indomani del barbaro assassinio, un ministro dell’Interno, Claudio Scajola. Aveva dedicato queste precise parole allo studioso che aveva avanzato richieste di tutela, poiché sentiva il pericolo aleggiare attorno alla propria persona: «Un rompicoglioni che pensava solo al rinnovo del contratto di consulenza».

Ma perché si risuscitano attorno a Marco Biagi polemiche e sospetti, rischiando di trasformare le celebrazioni in sarabande politiche, rompendo un’unità d’intenti, almeno nelle commemorazioni, mettendo insieme nomi diversi della sinistra italiana come l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati e l’attuale ministro del lavoro Cesare Damiano? Uno dei torti addebitati alla sinistra - ammonisce, ad esempio, il professor Ichino - consisterebbe nel non voler chiamare la legge 30 con quel nome, appunto, del giuslavorista, ovverosia “legge Biagi”. Sarebbe facile far notare che nemmeno lo Statuto dei lavoratori venne chiamato legge Brodolini, così come i provvedimenti legislativi ispirati da giuslavoristi (anche loro vittime di brutali assassini) come Ezio Tarantelli e Massimo D’Antona) furono contrassegnati con nome e cognome.

C’è un altro aspetto più consistente, sottolineato da diversi altri osservatori. La legge 30 non rispecchiava l’intera elaborazione di Biagi. Era solo una parte. Non conteneva altre delle sue proposte, come quelle attinenti il varo di adeguati ammortizzatori sociali, o addirittura uno Statuto dei nuovi lavori. Misure capaci di tutelare il popolo dei flessibili. Il governo di centrodestra si precipitò a lanciare solamente quello oltre 40 forme contrattuali. Gli aspetti, insomma, che potevano suscitare precarietà senza tutele, privati del loro “braccio sociale”.

C’è, crediamo, in questo riaffiorare di antichi livori, il tentativo di mettere il bavaglio a chi osa avanzare critiche, proposte di modifica o di cancellazione alle norme sulla flessibilità. Ignorando un intenso dibattito che coinvolge decine e decine di studiosi del diritto. Come se fosse una bestemmia o un calpestare la memoria di Biagi. Come se tutto procedesse per il meglio nel mondo dei lavori cosiddetti atipici. Chiudendo gli occhi sul fatto che attorno a noi sta crescendo una generazione che non riesce a progettare un futuro, perché la buona flessibilità che doveva essere congiunturale è diventata una consuetudine lunga tutta la vita. Lo testimoniano ormai centinaia di opere di letteratura, cinema, spettacolo. Come non accorgersene? Un istituto di studi quale è l’Ires Cgil - che non è un covo di estremisti radicali - ha dimostrato, cifre alla mano, le trasformazioni di questi lavori. Le ricadute sull'assetto sociale del Paese, sulle stesse prospettive previdenziali. Si sta addensando una nuvola d'ira nell'orizzonte sociale. E bisognerebbe starsene silenziosi e quieti? Non è un caso, del resto, che i sindacati stessi, tutti insieme, come dimostrano molti accordi conquistati in numerose aziende metalmeccaniche, abbiano conquistato accordi che pongono limiti seri a quella legge 30 (legge Maroni come l’ha chiamata a suo tempo Bruno Trentin).

Anche perchè molti imprenditori hanno capito che spesso conviene di più avere a disposizione una manodopera stabilizzata, piuttosto che ballerina. Forse hanno pensato alle parole pronunciate proprio ieri sul «Resto del Carlino» da Luca di Montezemolo, quando ha ammonito onde si presti attenzione «al lavoro, alla qualità della vita in fabbrica, alla fiducia nell’azienda». Tutti elementi cruciali «per fare ripartire la crescita nel Paese». Argomenti che fanno a pugni con altre prese di posizione del suo vice-presidente della Confindustria Alberto Bombassei che, sempre ieri, su un altro giornale, minacciava di «fare qualcosa di clamoroso» mentre proponeva di riprendere l’azione per cancellare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello sui licenziamenti facili. Una sortita irresponsabile.

Sono i diversi modi per commemorare la figura dello studioso assassinato. Ha detto bene Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che ha dedicato gran parte della propria vita alle cause del mondo del lavoro e a differenza di altri non se ne è dimenticato. «Il miglior omaggio che possa rendersi alla sua memoria», ha osservato Napolitano «consiste nel più attento e corretto approfondimento del suo contributo di analisi e di proposta». Senza pregiudizi, insomma, guardando al futuro più che al passato, soprattutto al futuro di quelle ragazze e di quei ragazzi in cerca di certezze.

Bruno Ugolini da www.unita.it

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