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Un partito democratico o un museo? (di Nando Dalla Chiesa)
2.04.2007
Sai che goduria un partito democratico così. Una specie di museo di storia contemporanea dove vengono allineati in bella mostra - così recita la litania più in voga - la cultura riformista liberale, il cattolicesimo sociale, la cultura socialista democratica, il liberalesimo repubblicano e perfino, pensa te il brivido di modernità, l’ambientalismo democratico (contrapposto evidentemente all’ambientalismo antidemocratico).

Un luogo rigeneratore, una sorta di terme per anziani, in cui si danno convegno le tradizioni politiche del Paese. Ognuna con i suoi meriti da decantare, le sue medaglie da fare rifulgere. Al passato, ovviamente. E poi dice che scarseggia l’entusiasmo. Ma scusate, chi potrebbe elettrizzarsi all’idea di recuperare le nostre tradizioni politiche, metterle una accanto all’altra e fare di questa collezione l’essenza del partito del futuro? Un partito fatto a cassetti, qui una tradizione, qui l'altra, magari pronte a costituirsi in correnti con i propri finanziamenti e i propri funzionari, come prevede l’ordine del giorno approvato di misura dal congresso lombardo della Margherita?

Anzi, a ben vedere l’idea del museo, o del raduno termale, è ancora ariosa e spumeggiante. Perché poi nei discorsi politici, nei dibattiti tra militanti, viene offerta anche un'altra versione, ancor meno fascinosa, del progetto: quella del partito democratico come il luogo della tanto attesa realizzazione del compromesso storico di “Moro e Berlinguer”. Con applausi, giusti, ovvi, all’evocazione dei due nomi.

Ma con un piccolo particolare di mezzo: che l’idea del compromesso storico nacque in tutt’altro contesto quasi trentacinque anni fa dopo il golpe cileno; delineando in un clima drammatico e al tempo stesso ricco di conquiste l'incontro tra due grandi culture e partiti di massa che insieme facevano il 70 per cento dell'elettorato.

Oggi, dopo i sommovimenti accaduti nel mondo in questi decenni, spiegare il partito democratico come l’inveramento di quel progetto, significa ridurre tutto al matrimonio, sfiatato e scolorito, tra due ceppi di partiti che da allora sono dimagriti assai e soprattutto sono stati costretti dalla storia a cambiar nome. Sai che entusiasmo, appunto.

Eppure sempre più spesso è esattamente questo che si sente proporre. Anzi. Ormai è come se si fosse innescato un circolo vizioso. Che funziona così. a) Si dà questo biglietto da visita del partito democratico. b) Si capisce a naso che la gente non impazzisce dalla voglia di partecipare alla sua fondazione. c) Una volta registrata la tiepida accoglienza, ci si convince che certo, questo partito lo si debba fare perché ormai “è andata così”, ma che non si possa proprio rinunciare alle identità di provenienza, perché quelle almeno parlano al cuore di duecento-trecentomila militanti, sempre meglio che niente. d) Si agitano ossessivamente le identità di provenienza (sempre caldi applausi dalla platea...) e si ripropone come storico orizzonte quello del loro incontro (se sono due “identità”) o raduno (se sono tutte le “grandi tradizioni”). e) Ai cittadini normali tutto questo sembra roba d’altri mondi e d’altri tempi.

Il vero problema è che nel ceto politico ulivista sono in troppi a credere che negli ultimi decenni non sia successo nulla. Troppi a non vedere che sono nate generazioni di cittadini che non si ritengono liberali democratici, socialisti democratici o cattolici democratici. Ma che si considerano semplicemente “democratici”. Democratici e basta. È stato un cambiamento importante. Rivoluzionario per le “tradizioni” e i costumi politici italiani. Che ha riguardato i giovani, naturalmente, che spesso nemmeno sanno chi siano Sturzo o Gobetti o Gramsci. Ma che ha riguardato anche gli adulti, passati per vicende storiche che hanno mutato potentemente la loro carta d’identità culturale.

C’è stata di mezzo, prima di tutto, la caduta del Muro. Ossia di una visione del mondo diviso in due campi, quello buono e quello cattivo, secondo i punti di vista. E che aveva portato gli uni ad accettare come male necessario o come presidio della democrazia Francisco Franco o i colonnelli greci, e gli altri ad accettare come prezzo della giusta Causa, e presidio dell’utopia socialista, i carri armati di Budapest o di Praga.

Un’idea di democrazia dimezzata e strumentale ha continuato ad albergare nella coscienza politica di decine di milioni di italiani per effetto di quel Muro. Oggi non è più così. Un carro armato contro le opinioni è un carro armato contro le opinioni, senza se e senza ma. Dei dissidenti imprigionati sono dei dissidenti imprigionati, punto e a capo. Non solo. Le prove terribili del terrorismo e della mafia hanno forgiato un nuovo, più radicale attaccamento alla democrazia e alle sue istituzioni, non più mediato dalla adesione a un partito; ma immediato, diretto, come è tipico delle democrazie moderne. E hanno seminato un nuovo rispetto delle regole democratiche.

Gli elettori del centrosinistra non provano più nella loro generalità alcuna tenerezza o comprensione verso chi ricorre alla violenza per affermare le proprie ragioni. Più di recente, e muovendosi evidentemente su un altro piano, la stessa esperienza del governo Berlusconi, con le sue pulsioni autoritarie e cesariste, ha fatto scoprire in modo nuovo lo spirito profondo della Costituzione, non più “patto tra diversi” ma intenso sentimento collettivo, fino alla straordinaria vittoria dei “sì” al referendum di giugno. Mentre, prima ancora, la indimenticabile esperienza delle primarie aveva fatto intendere la nuova dimensione della partecipazione politica che si è fatta largo tra i cittadini.

Insomma, i “democratici e basta”, quelli che nella democrazia ci credono e ne fanno la stella polare delle proprie scelte politiche, civili e culturali, esistono sul serio. E sono milioni. Ognuno tende, è vero, a stabilire una propria gerarchia di valori, a dare un proprio “centro” alla democrazia che ha in mente: la giustizia sociale, la partecipazione politica, la libertà di opinione, l’etica pubblica, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’informazione, il merito e altro ancora. Ma il popolo dei democratici esiste, e l’ideale della democrazia è la sua vera, profonda fonte di identità.

Il resto viene dopo, se viene. Perciò mettere in testa a tutto le cosiddette identità di provenienza è antistorico, e non dà ali al nuovo partito; anzi lo zavorra, annullando totalmente la dimensione del progetto.

Sia chiaro: le identità, le storie collettive, non si cancellano con un tratto di penna, ed è strano che i loro cantori e cultori non lo capiscano. Tutti portano con sé le proprie biografie, le proprie esperienze collettive, i panorami umani entro cui hanno agito e sperato.

Ma il futuro non è la sommatoria di esperienze e panorami passati. Il futuro sta piuttosto nella capacità di tradurre il nuovo sentimento democratico, con i suoi poster, con i suoi simboli e e le sue date di riferimento, spesso ingenuamente mescolati, in nuova cultura politica. Fatta di valori, programmi e metodi.

Quanto alle tradizioni politiche, resteranno sullo sfondo; non a fare da polveroso solaio ma a fungere da linfa attiva, spesso inavvertita. Esattamente come l’educazione familiare quando il giovane esce di casa e affronta la sua nuova vita. E ne scopre (e apprezza) l’influsso anche dopo molti anni nelle scelte cruciali o più difficili.

Il passato, questo è il punto, può alimentare il futuro. Non gli si può sostituire. Perciò un partito democratico senza la cultura del partito democratico resterebbe una scommessa persa in partenza.

www.nandodallachiesa.it

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