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La tragedia della memoria rovesciata
9.04.2007
Andrea casalegno, giornalista de La Stampa, scrive al suo direttore (www.lastampa.it - 6 aprile 2007)
Di seguito, la risposta del direttore de La Stampa ed anche quella di Piero Fassino

Terrorismo, la tragedia della memoria rovesciata di Andrea Casalegno

Caro direttore, ti scrivo, cosa insolita per un tuo giornalista, perché abitualmente mi occupo di temi culturali mentre questa volta sono in gioco da un lato valori umani fondamentali, dall'altro la ricostruzione del nostro recente passato. A trent'anni di distanza si infittiscono le rievocazioni degli "anni di piombo". Ben venga una riflessione ponderata su quegli eventi sanguinosi, meglio ancora se sostenuta da nuovi elementi di fatto.

Ma esibire buoni sentimenti con trent'anni di ritardo, capovolgendo il giudizio sulle dolorose decisioni di allora, è da irresponsabili.

Ha cominciato l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro dell'Interno nel 1977-78, dichiarando al «Corriere della Sera» che oggi non invierebbe più i mezzi blindati della polizia contro «il movimento del '77»: un ripensamento che oggi non costa nulla e nella sua futilità suona offensivo per le vittime. Poi, il segretario politico dei Ds Piero Fassino e l'ex direttore dell'Unità ed ex presidente della Camera dei deputati Pietro Ingrao hanno dichiarato che nel 1978 è stato «un errore» non trattare con le Brigate rosse per salvare la vita del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.

A quel tempo, come dirigenti del Partito comunista, condividevano pienamente la «linea della fermezza »; oggi la ritengono sbagliata perché «è sempre giusto salvare una vita». E qualcuno ha addirittura messo sullo stesso piano lo scambio di prigionieri che ha salvato la vita a Mastrogiacomo, il giornalista di Repubblica sequestrato in Afghanistan, con la liberazione dei brigatisti chiesta nel 1978 dai terroristi che tenevano prigioniero Aldo Moro. Questi ripensamenti tardivi suggeriscono una ricostruzione dei fatti che può trarre in inganno i nostri giovani lettori. Qualcuno ha addirittura presentato i politici contrari alla trattativa come i «veri assassini» di Moro.

Nel suo libro sul '77 Lucia Annunziata parla di «parricidio» a proposito dei dirigenti democristiani e del loro presidente. In simili ricostruzioni è implicito che sarebbe bastato un gesto di umanità per salvare la vita di Moro. Si è proclamato addirittura, come se fosse un fatto scontato, che «eravamo in guerra e in guerra è previsto lo scambio di prigionieri». Tutto falso. Non basta dichiarare guerra perché la guerra esista. Non ci fu alcuna guerra, ma lo scontro sanguinoso fra il nostro Stato democratico e una banda di assassini autoproclamatasi «avanguardia rivoluzionaria ». I ferimenti, gli omicidi, per quanto numerosi e dolorosi,non hanno mai avuto alcun rapporto con un'autentica attività rivoluzionaria in grado di cambiare l'assetto politico e sociale del Paese. Essere riconosciuti come «combattenti» era proprio l'obiettivo fondamentale delle Brigate rosse.

La «fermezza» non fu un patto scellerato fra Dc e Pci ma una linea di condotta condivisa dall'intero schieramento politico, compresi molti dirigenti socialisti, come Sandro Pertini e Leo Valiani. Chi pensa, oggi, che allora si potesse, si dovesse cedere ha dimenticato i cinque agenti di scorta assassinati in via Fani. Le lettere di Moro, autentiche per chiunque sapesse intendere, chiedevano di trattare. Lo chiedeva la sua famiglia. Respingere quella richiesta di aiuto non deve essere stato facile né per Cossiga, né per il segretario della Dc Benigno Zaccagnini, né per il pontefice Paolo VI, che chiese agli «uomini delle Brigate rosse» di lasciare libero Moro «senza condizioni». Tutti e tre erano amici personali di Aldo Moro. Con che disinvoltura, oggi, si "corregge" il loro errore e li si accusa di mancanza di umanità!

Problema diverso sono le connivenze che protessero e forse pilotarono le Br dall'interno degli apparati deviati dello Stato. Il fatto che l'unità di crisi presso il ministero dell'Interno fosse quasi interamente costituita da iscritti alla loggia massonica P2 vorrà pur dire qualcosa. È probabile che le indagini siano state sviate da quelle complicità, neutralizzando l'unica via per salvare la vita di Moro: individuare la sua prigione. Ma di queste coperture i capi brigatisti, Mario Moretti in testa, non hanno mai parlato.

*** La risposta del Direttore de La Stampa

Caro Andrea, questa insolita corrispondenza pubblica tra colleghi necessita, soprattutto a beneficio dei lettori più giovani, di una spiegazione. Noi ci conoscemmo, caro Andrea,nella più drammatica delle occasioni: trent'anni fa, sulla porta di una stanza dell'ospedale Molinette di Torino, nella quale tuo padre Carlo, colpito dal terrorismo rosso, lottava invano contro la morte. Io non dimenticherò mai la dolcezza della tua espressione di dolore e l'infinita cortesia riservata a un cronista invadente. So quanto ti è costato scrivere questa lettera. Ma il sacrificio, credimi, non sarà inutile. Spero che la leggano con attenzione coloro che, con superficialità e improvvisi vuoti di memoria, sono approdati al proscenio dei "ripensamenti tardivi", al gioco intellettuale dei "se", ai gesti umanitari retrospettivi tanto belli da esibire quanto privi di costi. Le rievocazioni degli " anni di piombo"si susseguono mentre gran parte delle vittime di quella stagione del terrorismo (non ci fu alcuna guerra),battuta solo dalla fermezza e dalla dignità dello Stato, giace in uno scandaloso dimenticatoio. La scena pubblica vede, al contrario, molti dei colpevoli scrivere libri e dare interviste. La memoria si è rovesciata.

***

La Stampa, 8 aprile 2007

Fassino: il diritto di cambiare idea

Il segretario Ds Piero Fassino risponde ad Andrea Casalegno, che in una lettera a Il Sole 24 ore, ripresa da La Stampa, ha denunciato la «memoria rovesciata» sulla «linea della fermezza» adottata in occasione del caso Moro.

PIERO FASSINO *

Caro Andrea,

ho vissuto - come te - a Torino la stagione buia del terrorismo.

E so bene quanto terribili siano stati quegli anni. Anni nei quali ogni mattina - tra le 5 e le 6, quando gli operai del primo turno entrano in fabbrica - il mio telefono squillava e dall'altro capo del filo c'era qualche nostro compagno che mi avvisava sconvolto che un caporeparto era stato appena ucciso o un caposquadra gambizzato o l'auto di un sindacalista bruciata. Anni nei quali poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari venivano freddati con spietatezza solo per la divisa che portavano. Anni nei quali i muri di Torino erano invasi dalla stella a 5 punte delle Br, accompagnata spesso da minacce di morte (come «Fassino ti spareremo in bocca»). E ricordo bene quando le Br assassinarono tuo padre: lo sgomento della città e la sensazione di impotenza che ci attanagliò, accresciuta dall'insuccesso dello sciopero di protesta. E traemmo proprio da quell'assassinio così vigliacco la forza e la determinazione per contrastare definitivamente ogni lettura indulgente, riduttiva o giustificazionista, mettendo in campo una risposta democratica forte che sconfiggesse le Br e la loro criminale eversione.

Scrivo tutto questo per fugare in te, e in chi abbia seguito il dibattito di queste settimane sul caso Moro, l'idea che vi sia in me scarsa memoria o sottovalutazione di quel che accadde trent'anni fa.

Non è così. Il terrorismo fu una minaccia esiziale per la democrazia e fu giustissimo combatterlo con la massima determinazione e intransigenza. E io condivisi la linea della «fermezza» e non ne declino certamente oggi la responsabilità. Ciò non impedisce di chiedermi, trent'anni dopo, se la linea della fermezza dovesse comportare necessariamente l'estremo sacrificio della vita di Aldo Moro. Non sono convinto, ad esempio, che un'eventuale trattativa per ottenere la liberazione del leader Dc avrebbe avuto come inevitabile conseguenza una resa al terrorismo, contro il quale credo si sarebbe continuato a combattere con la stessa intransigenza.

Né sono convinto che salvare la vita di Moro avrebbe voluto dire «riconoscere» le Br, sulle quali il nostro drastico giudizio non sarebbe certo cambiato. E mi chiedo anche se la crisi della Repubblica, che da quell'assassinio in poi divenne via via più acuta e inarrestabile, sarebbe stata la stessa con Moro vivo. Mi si può obiettare che in realtà non c'erano margini, perché alle Br - per dimostrare la loro invincibile potenza - serviva assai di più uccidere Moro che qualsiasi trattativa. Anche questa è una tesi che certo va considerata nel riflettere su quel periodo così drammatico. Insomma: domande e riflessioni che non credo illegittime e su cui naturalmente è del tutto lecito avere opinioni diverse. Quel che mi pare meno legittimo è bollare le opinioni da te non condivise come «irresponsabili», «futilità», «esibizione tardiva di buoni sentimenti». Comprendo la sofferenza atroce che ogni riflessione su quegli anni suscita in te, così colpito personalmente dalla brutalità assassina delle Br. Ma ti prego di credere che chi oggi continua a riflettere su quegli anni non lo fa per esibizionismo, ma perché quella pagina drammatica ha segnato la vita di tutti noi e del Paese.

Con amicizia.

*Segretario dei Democratici di sinistra

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