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Creazioni (di Paola Carini)
8.05.2007
Cristallizzata in miti complessi di popolazioni lontane o nei libri sacri delle religioni monoteiste l’origine del mondo e della specie umana è un mistero ineffabile. Che sia a seguito di una volontà divina espressa con il biblico “Sia la luce”, che sia a seguito di una visione di un altro creatore come Kitchi Manitou, a cui apparve la Terra fatta di montagne, pianure, foreste, fiumi e laghi, la genesi si perde nelle spire immemorabili del tempo e della memoria umana. Nel caso delle culture autoctone del continente nordamericano essa si salda con la geografia, costellando il paesaggio di tratti morfologici peculiari che rimandano alle radici cosmogoniche e mitiche delle singole culture tribali.

Generalmente, affinché un luogo diventi “sacro”, ad esso si associano uno o più eventi qualificanti che implicano la perdita della sua caratterizzazione profana in favore di una distinta, quando non religiosa, qualità che suscita riverenza e ispira adorazione. Per esempio le trincee della Grande Guerra tuttora esistenti e Fatima sono due modi di sacralizzare un luogo: il primo per la testimonianza storica che esso ingloba e il secondo per la trasfigurazione divina che vi avvenne. Fare un’escursione sul monte Grappa lungo la linea del fronte creatasi dopo l’offensiva austriaca, la Strafe Expedition del 1916-17, significa ripercorrere la Storia sfogliandone i capitoli narrati dal paesaggio in un atto di ossequio a quell’esplosione furiosa del dolore umano; per contro Fatima, essendo sito in cui la divinità si è manifestata è luogo sacro nell’accezione più classica, dono della compassione divina verso la travagliata umanità. Le dinamiche di sacralizzazione dei luoghi tra le culture nativo-americane si sono sviluppate seguendo direttrici quasi del tutto analoghe: un luogo è sacro perché laggiù accadimenti storici di grande rilevanza hanno lasciato un segno indelebile oppure perché vi si manifestano esseri sacri o vi si tengono cerimonie rituali. Quel che cambia è il modo in cui ai luoghi si intersecano i racconti mitici e, ancor più sorprendentemente, come certi punti vengano identificati come il luogo di origine della stirpe tribale e del mondo come lo conosciamo oggi, diventando cioè la testimonianza fisica dell’atto primordiale del Creatore e della presa di coscienza degli esseri umani di essere sue creature.

Il mito si incrocia ovunque con la geografia, anche negli angoli più appartati d’Europa come valli o monti – in Italia alla croda del monte Faloria è ancora oggi associata la leggenda dei suoi primi abitanti e delle loro divinità pagane. Ma se quaggiù è rimasta la trasmissione del racconto incapsulata nelle leggende tradizionali, per i nativo-americani la connotazione originaria non è stata diluita con l’aspetto folcloristico. Per i kiowa le profonde scanalature incise in senso verticale nelle pareti della conformazione rocciosa di Devil’s Tower (La torre del diavolo) nel Wyoming non hanno niente di demoniaco: esse raccontano della metamorfosi di un ragazzo che trasformatosi in orso vi si arrampicò inseguendo le sue sette sorelle, le quali scapparono in cielo dando origine alle stelle che formano l’Orsa Maggiore. Le scanalature sono i segni delle sue unghie e le stelle esseri trascendenti che insieme al sole, che i kiowa veneravano, li avrebbero sostenuti accompagnati nel loro viaggio di migrazione verso le Grandi Pianure. Il masso sulla strada per Paguate (New Mexico) è invece per i laguna il cuore del mostro Estrucuyo, ucciso da due eroici gemelli per salvare Kochininako, la divinità chiamata Yellow Woman (Donna Gialla). Per ciò che riguarda invece la creazione, la gran parte delle tradizioni nativo-americane indica luoghi ben precisi, ad esempio le sorgenti del fiume Yellowstone dove i kiowa uscirono da un tronco cavo e giunsero in questo mondo, ma è soprattutto tra le popolazioni autoctone del sudovest che vivono lungo il Rio Grande (chiamate genericamente “pueblo”) che la genesi tribale si fa particolarmente articolata.

Nelle sue varie versioni, questa creazione racconta dei diversi stadi “dell’emersione”, cioè della fuoriuscita da quattro o cinque mondi antecedenti durante i quali gli esseri umani si definiscono nella loro forma attuale in un percorso evolutivo verso equilibrio ed armonia. Nella storia della creazione degli hopi, insieme ad essi uscì tutto il genere umano compresi i bianchi, i quali disobbedirono al creatore e portarono in questo mondo anche il male invece che abbandonarlo, come gli altri, nel mondo sottostante.
Tra queste popolazioni il tema dell’emersione è riprodotto sia nell’organizzazione urbana che nella struttura di edifici chiamati kiva. La planimetria dei villaggi, i canoni estetici ed architettonici, la dislocazione urbanistica rispecchiano le credenze cosmologiche e il mitema dell’ascesa, che trova corrispondenza nei dislivelli degli edifici a più piani collegati da scale e tetti comunicanti. Per più di un millennio queste popolazioni hanno costruito le kiva adibendole sia a luoghi cerimoniali che a scopi sociali; generalmente rettangoli tra i pueblo ad ovest del fiume e circolari negli altri casi, le kiva sono nella maggior parte dei casi costruzioni parzialmente sotterranee con notevoli similitudini. Tra ciò che le accomuna c’è “shipapu” (o in altre grafie “sipapuni”) la cavità che rappresenta l’apertura da cui emersero gli antenati. Per i tewa le kiva sono la dimora primordiale nel mondo di sotto; per gli àcoma coincidono con il luogo dell’emersione, per gli hopi i due livelli interni raffigurano rispettivamente il secondo mondo – dove è collocata shipapu – e il terzo mondo, nel quale si trova la scala che conduce all’uscita in superficie, cioè nel quarto mondo, quello attuale. Non meno importanti sono i corsi d’acqua, fonti o specchi che di solito circondano i villaggi: in mezzo a Taos, ad esempio, scorre il Red Willow Creek che non solo è l’approvvigionamento idrico per tutta la comunità ma anche il torrente che si getta nel Blue Lake, un lago nei monti circostanti dal quale all’inizio dei tempi emerse la tribù.

Nel nord dell’Arizona c’è una catena montuosa chiamata San Francisco Peaks, all’interno di quell’area che ora è la Foresta Nazionale di Coconino. Il Servizio Forestale statunitense ha riconosciuto che quei monti sono sacri per almeno tredici nazioni indiane e che il loro “significato religioso” perdura da secoli. Sebbene sin dal 1938 esista un impianto sciistico autorizzato nei suoi successivi sviluppi dallo stesso Servizio Forestale, nel 2005 i proprietari inoltrarono la richiesta di poter acquisire parecchi acri ed espandere la fruibilità della zona a fini ricreativi portando lassù le acque reflue della città di Flagstaff da utilizzare per creare neve artificiale. Il Servizio Forestale diede il suo benestare ma la nazione navajo, la tribù hopi, la tribù hualapai, la nazione yavapai-apache, la nazione apache di White Mountain, singoli membri in rappresentanza della tribù havasupai, il Sierra Club ed altre associazioni per la conservazione dell’ambiente fecero ricorso. Pochi giorni fa la Corte d’Appello ha dato loro ragione basandosi sulla testimonianza delle nazioni indiane, riconoscendo cioè la sacralità del luogo così come la definiscono quelle popolazioni. Non si tratta solamente del fatto che hopi, zuni, àcoma, diné, apache, yavapai, hualapai, paiute e havasupai usufruiscono delle proprietà medicamentose dell’acqua, della flora, della fauna, del terreno dei Peaks e che li considerano dimora di entità spirituali che essi pregano attraverso cerimonie e riti particolari: quelle montagne sono sacre perché laggiù sono avvenuti episodi concernenti la genesi.

Il giudice Fletcher della Corte d’Appello argomenta così la decisione di proibire l’espansione della struttura: la proposta di utilizzare acque reflue per creare neve artificiale sui San Francisco Peaks impedirebbe il libero esercizio spirituale come tutelato dalla legge a tutte le nazioni indiane coinvolte, in particolar modo agli hopi e ai navajo. “Esibendo le prove” che la purezza dell’ambiente naturale è l’unica possibilità di poter continuare a celebrare riti e cerimonie e a curarsi con ciò che vi si trova lassù, le nazioni indiane hanno convinto la Corte illustrando le proprie credenze e i propri miti.
“Gli hopi sostengono che quando emersero in questo mondo, essi si diressero verso i monti per ricevere istruzioni” da un’entità spirituale superiore che essi chiamano Ma’saw. Fuoriusciti da “shipapu”, viaggiarono fin lassù per imparare a vivere, a distinguere il bene dal male, a coltivare il mais blu che gli era stato dato nel momento dell’emersione. Lassù vivono tuttora entità spirituali comunemente chiamate katchina, “gli spiriti degli antenati degli hopi e le anime di coloro che muoiono”, esseri che agiscono da tramite tra gli hopi e il creatore. Sottoforma di nuvole, i katchina portano l’acqua ai villaggi semidesertici degli hopi solamente se attraverso cerimonie particolari essi sono riusciti a pregare gli spiriti dei monti, a purificare cioè il loro cuore.
Davanti alla Corte, i testimoni navajo hanno chiarito che le quattro cime che compongono i San Francisco Peaks non sono sacri solamente perché “ogni giorno i navajo rivolgono ad essi canti cerimoniali e preghiere” ma perché lassù la divinità dal nome di Changing Woman (Donna Che Si Trasforma), compì il primo rito puberale che tutt’oggi viene celebrato. Fu lei a partorire i due gemelli da cui discende la stirpe dei navajo, e fu lei ad istruire i propri figli, e quindi tutte le generazioni successive, su come pregare i monti. Nei lunghi cerimoniali navajo, tra cui quello denominato Blessingway, i canti e le preghiere vengono rivolti ai Peaks poiché all’alba del mondo il creatore volle dare origine ai navajo lassù. Per i navajo la genesi non è un luogo immateriale, al contrario esso ha i confini ben precisi dei San Francisco Peaks a ovest, di Blanca’s Peaks a est, di Mount Taylor a sud e di Hesperus Peaks a nord, e fu proprio sui primi che i navajo presero coscienza di essere “nochoka diné”, “genti della Terra” a cui spetta il compito di prendersene cura così come fu il volere del creatore.

Che sia a seguito di un atto di pensiero come quello di Ts’its’tsi’nako, la Creatrice dei keres chiamata Donna Pensiero, che sia a seguito della decisione del “Grande Mistero” e dei suoi collaboratori animali che si tuffano nelle acque primordiali per portare in superficie frammenti di fango che comporranno il mondo o che esso poggi sul dorso di una tartaruga, quel che non cambia, al di là dei luoghi veri o immaginati e dei differenti miti, è l’essenza della creazione. Ciò che significano le San Francisco Peaks per i diné, gli hopi e le altre tribù, ciò ricordano ai kiowa le sorgenti del fiume Yellowstone e ai credenti l’enunciato potente del dio biblico è l’emersione dal buio del caos e del dolore a seguito della scelta di un creatore dai tanti nomi che ha voluto manifestare sé stesso creando il mondo e i suoi abitanti con un atto di amore.
Le storie della creazione raccontano proprio questo, affinché gli esseri umani ricordino sempre che la vita è stata generata dall’amore e che solo nell’amore può essere veramente vissuta.

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