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Strade (di Paola Carini)
13.06.2007

"Ci sono due monti in queste terre, le Black Hills e il Big Horn Mountain, e non io voglio … strade che le attraversino", così affermava con forza Mahpiua Luta (Red Cloud o Nuvola Rossa) a nome del suo popolo, la divisione oglala dei lakota sioux, invano.

"Una volta eravamo amici di voi bianchi, ma voi con i vostri intrighi ci avete estromesso, ed ora che siamo qui a consiglio vi estromettete l’un l’altro. Ma perché semplicemente non parlate e lasciate che tutto si sistemi?" così Motavato (Black Kettle o Pentola Nera) faceva appello agli ufficiali e ai rappresentanti del governo, invano.

Un intrico di strade avrebbe finito col serpeggiare ovunque accompagnando le macchinazioni ordite ai danni delle popolazioni tribali, strade che avrebbero propagato la brutalità della bramosia e l’efferatezza della violenza impedendo, tranne in pochi casi individuali, l’incontro sincero di anime e culture.

Fu durante la Guerra di Secessione americana (1861-1865), che vide opporsi gli stati del Nord, favorevoli all’abolizione della schiavitù, e quelli del Sud, la cui struttura economico-sociale viveva dello sfruttamento schiavistico, che i rapporti con le nazioni indiane ad ovest degli Appalachi precipitarono. Nel 1861 a Washington si decise di creare il Territorio del Colorado, di ufficializzare cioè l’invasione dei territori di cheyenne, arapaho, sioux e crow da parte migliaia di coloni e cercatori d’oro. Nel 1863 la pista Bozeman apriva un varco nelle terre dei lakota e la ferrovia Union Pacific, terminata nel 1869 e costata il sangue di centinaia di operai cinesi, vi avrebbe trasportato più agilmente armi e soldati. Le alternative per le nazioni indiane delle Grandi Pianure erano davvero poche: o spostarsi presso i forti e vivere delle scarse e scadenti razioni alimentari governative dato che i bisonti erano stati massacrati a centinaia e lasciati marcire a mucchi da pistoleri senza scrupoli pagati dallo stesso governo, oppure cercare asilo nel vicino Canada, come avrebbe fatto Sitting Bull (Toro Seduto) benché senza successo. Nel Trattato di Fort Laramie (Territorio del Dakota 1868) il governo americano delineava i confini della riserva per i gruppi sioux dei brulé, degli oglala, dei minneconjou e degli yanctonais, che in cambio cedevano la loro sovranità su tutto il resto delle terre ancestrali. In esso si delineava de iure la trasformazione coatta di queste popolazioni semi-nomadiche di cacciatori in agricoltori provetti, alfabetizzati e vestiti alla maniera occidentale, si stabiliva la costruzione di una magazzino destinato alle scorte alimentari (una libbra di carne e una libbra di farina al giorno per persona distribuite periodicamente) e al vestiario per gli indiani (pantaloni, gonne, camice di flanella, pezze di cotone e di cotonina), di una scuola e chiesa, di una sede per l’Agenzia Indiana e il domicilio dell’agente indiano, cioè l’agente federale che avrebbe mantenuto e controllato i rapporti con gli indiani, e la bottega del mugnaio, del maniscalco, del carpentiere e l’ambulatorio del medico, nonché l’elargizione di "una buona mucca americana e una coppia di buoi ben addomesticati" e le sementi necessarie alle famiglie che avrebbero deciso di coltivare la terra; i dieci agricoltori più bravi sarebbero stati premiati con elargizioni in denaro. Le terre comprese a nord del fiume Platte e ad est dei monti Big Horn sarebbero rimaste ai sioux e i forti esistenti e le strade in quella parte del Territorio del Montana abbandonati dai bianchi. Non fu esattamente così.

Pochi anni più tardi, nel 1875, la catena montuosa delle Black Hills (South Dakota), benché assegnata dal trattato di Fort Laramie ai lakota, fu fraudolentemente aperta ai cercatori d’oro, facendo di quell’area un nodo di disputa legale ancora oggi. Nel 1981 la nazione lakota rifiutò i cento milioni dollari di risarcimento che la Corte Suprema intimò al governo americano di sborsare per la violazione del trattato, esigendo la restituzione dell’area. Ma fu ai margini della guerra civile e della tumultuosa ma "eroica" – per la retorica di ieri e di oggi − "conquista del west" che avvenimenti sanguinosi conflagrarono in sordina, lasciando cicatrici nella terra e voragini nello spirito di chi li visse.

Nel 1863 Motavato, uno dei capi cheyenne, fu convocato a Washington dal Presidente Lincoln. Il leader indiano venne omaggiato della bandiera americana, e gli fu detto che quel vessillo sarebbe stato il simbolo dei buoni rapporti tra cheyenne e americani e che finché avesse sventolato sul suo accampamento i soldati non avrebbero mai aperto il fuoco. L’incontro avveniva dopo un decennio di relazioni complesse: nonostante il trattato del 1851 sottoscritto da cheyenne, arapaho, sioux, e crow, nessuna di queste nazioni aveva ceduto il diritto di sovranità sulle proprie terre ma l’invasione di queste ultime era diventata incontenibile. Cheyenne e arapaho cercarono di mantenere sempre un comportamento pacifico e fu grazie a capi come Motavato che incidenti gravi non sfociarono in guerra aperta. Presso il fiume Ash Creek, ad esempio, un centinaio di soldati armati di cannoni si avvicinarono all’accampamento di Motavato con fare aggressivo. Alcuni guerrieri cheyenne, tra cui Lean Bear, andarono ad accoglierli con le medaglie appuntate al petto che lo stesso presidente Lincoln aveva dato loro, e vennero uccisi a sangue freddo. Immediatamente altri guerrieri si precipitarono verso i soldati che, spaventati, si diedero alla fuga. Ancora una volta Motavato bloccò possibili ritorsioni e acconsentì a recarsi a Fort Lyon, nel Colorado, per cercare di porre fine agli insensati attacchi militari contro gli cheyenne. Autorizzati dal governatore del Territorio ad accamparsi presso il forte nella località chiamata Sand Creek, circa seicento tra cheyenne e arapaho attendevano un nuovo colloquio con i bianchi e una risoluzione pacifica della questione. All’alba del 29 novembre 1864 il Colonnello nonché reverendo John M. Chivington guidò il corpo dei Colorado Volunteers e dei soldati della guarnigione, più di settecento persone armate fino ai denti e con quattro obici appresso, presso l’accampamento. In un attimo fecero fuoco, irruppero nell’accampamento ed uccisero e mutilarono centocinque tra donne e bambini e ventotto uomini adulti. In tanti cercarono di correre vicino alla tenda di Motavato dove sventolava la bandiera americana; in tanti vennero falciati. Motavato e sua moglie sopravvissero, per venire uccisi quattro anni dopo dal Colonnello Custer e dai suoi soldati presso il fiume Washita, in Oklahoma, per ordine del Generale Sheridan. I soldati ancora una volta attaccarono col tradimento un pacifico accampamento, uccisero centrotre persone e trucidarono anche i loro animali. Lo scopo Sheridan – uccidere gli indiani ostili − era caldamente appoggiato ai più alti livelli a Washington e solo poche voci oppositrici si levarono. Gli cheyenne sopravvissuti con a capo Little Robe, gli arapaho e i comanche si arresero affamati, traditi e prostrati, a Sheridan presso Fort Cobb.

Questo e molti altri capitoli della Storia americana vennero esaustivamente raccontati in un libro che divenne un best-seller: "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee", di Dee Brown. Pubblicato nel 1970, esso illuminò generazioni di americani nonché di europei e di lettori di tutto il mondo sul tradimento, il doppio gioco, l’ipocrisia e le violenze che avevano insanguinato l’America. Oggi HBO, il canale televisivo educativo, propone un adattamento cinematografico del libro focalizzandosi sulla parte che narra di Wounded Knee, della carneficina, delle mutilazioni, delle fosse comuni. Più di trecento minneconjou sioux, anch’essi pacifici, vennero circondati dal Colonnello James Forsyth e dal Settimo Cavalleria il 28 dicembre 1890 nella località omonima. Vennero tutti uccisi o lasciati morire nella neve. Il santee sioux Ohiyesa, il cui nome anglicizzato era Charles Eastman, era il medico della riserva di Pine Ridge quando avvenne il massacro. Fu lui ad andare alla ricerca dei sopravvissuti, fu lui a curare i pochi che trovò. Il film inserisce la sua figura in contesti a cui mai partecipò modificando sostanzialmente il percorso storico, e "ridimensiona" – nelle parole dello sceneggiatore Daniel Giat − la figura di Sitting Bull sottolineando la sua vanagloria, la disperata ricerca dell’approvazione della sua gente e dei bianchi, "per identificarsi meglio con lui".

Molti documenti potrebbero confutare questo ritratto di Sitting Bull, e certamente in molti lo faranno. Ma inconfutabile rimane soprattutto la violenza con cui ieri come oggi ci si accanisce spasmodicamente contro le popolazioni nativo-americane e i loro discendenti. Ieri con le armi a ripetizione. Oggi con l’uso subdolo delle immagini in un film.

Nella foto: Mahpiua Luta (Red Cloud o Nuvola Rossa)

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