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Cosa succede agli studi di settore (M.C. Guerra da lavoce.info)
15.06.2007

Contrariamente a quanto è stato a più riprese affermato da molti commentatori in questi giorni di convulso dibattito sugli studi di settore, i lavoratori autonomi e le piccole imprese non pagano le imposte su redditi presunti ricavati dagli studi di settore, ma sono chiamati a versare le loro imposte sul reddito effettivo, che risulta dalla differenza fra i ricavi (che devono essere certificati, ad esempio, attraverso gli scontrini e le ricevute fiscali) e i costi sostenuti.

Nessuna norma che riguarda gli studi di settore può quindi essere accusata di ampliare la base imponibile, o di violare lo statuto dei contribuenti introducendo prelievi retroattivi.

Cosa sono e cosa sono sempre stati

Gli studi di settore, la cui disciplina di base risale al 1993, ma che hanno cominciato a essere operativi alla fine degli anni Novanta, sono

1. uno strumento di accertamento, servono all’Amministrazione per la propria attività di controllo, sia un ausilio al contribuente per valutare la propria situazione economica, anche a confronto con quella degli altri contribuenti.

2. Sono realizzati tramite la raccolta sistematica di dati presso l’universo dei contribuenti: sia quelli di carattere fiscale, che quelli di tipo "strutturale" che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui questa si svolge.

3. Vengono ad esempio rilevati gli acquisti di beni e servizi, i prezzi medi praticati, i consumi di materie prime, il capitale investito, l’impiego di manodopera e di beni strumentali e la localizzazione dell’attività. Questi elementi vengono poi combinati, attraverso apposite tecniche statistiche, per individuare i ricavi che con massima probabilità possono essere attribuiti al contribuente, considerando anche fattori che potrebbero determinarne una limitazione (per esempio, orari di attività, situazioni di mercato).

4. I ricavi presunti che emergono dagli studi di settore possono essere calcolati dal singolo contribuente attraverso un’apposita procedura informatica (Gerico) al momento della dichiarazione dei redditi.

5. Nell’ipotesi in cui i ricavi o compensi contabilizzati siano inferiori a quelli presunti, il contribuente può adeguare spontaneamente i primi ai secondi, al momento della dichiarazione.

6. Quando si verifichino discrepanze fra i ricavi dichiarati dal soggetto e i ricavi calcolati sulla base degli studi di settore, che lascino presumere l’esistenza di evasione fiscale, l’Amministrazione può operare un accertamento di tipo analitico presuntivo, il cui primo passo consiste in un confronto con il contribuente, chiamato a motivare tale scostamento. (1)

Come hanno reagito i contribuenti?

Nel corso del tempo i contribuenti congrui (in regola con gli studi di settore) sono cresciuti. Ciononostante, in più settori i redditi dichiarati sono addirittura calati . Ciò sembra essere in larga parte il risultato di una duplice attività di "manipolazione".

- In primo luogo i contribuenti hanno iniziato ad alterare i dati strutturali su cui si basano gli studi di settore: dichiarando, ad esempio, un minor impiego di beni strumentali, si fanno emergere ricavi presunti più bassi.

- In secondo luogo, si è assistito a un aumento fittizio di quei costi che non sono utilizzati per la determinazione dei ricavi presunti, ma che servono per passare dai ricavi al reddito imponibile.

Questi comportamenti hanno indotto il legislatore, già con la Finanziaria del 2006, a potenziare l’analisi della coerenza economica e cioè della conformità di alcuni indicatori economici caratterizzanti l’attività svolta dal contribuente con quelli previsti dagli studi di settore.

Gli indici di normalità economica

La Finanziaria per il 2007, ha previsto la predisposizione di ulteriori indici di coerenza. Con decreto ministeriale del marzo 2007 sono stati individuati quattro indici di normalità economica, che verranno utilizzati con riferimento alle dichiarazioni relative al 2006.

Due di questi, l’uno relativo all’"Incidenza dei costi di disponibilità dei beni strumentali mobili rispetto al valore storico degli stessi", l’altro relativo alla "Rotazione di magazzino", contrastano fenomeni noti, quale quello che consiste nel dichiarare valori di beni strumentali mobili (che concorrono alla determinazione dei ricavi presunti) molto contenuti e evidenziare invece costi di ammortamento (che non concorrono a tale determinazione) elevati, per abbattere il reddito imponibile.

Per il 2006, i costi di ammortamento che eccedono quelli coerenti con i valori dei beni strumentali dichiarati verranno utilizzati come indicatore per la valutazione dei ricavi presunti.

Sono stati poi introdotti due ulteriori indicatori, l’uno relativo alla redditività dei beni strumentali mobili, l’altro al valore aggiunto per addetto. Quest’ultimo, da cui ci si attende la maggiore efficacia nella valutazione corretta dell’imponibile (e quindi il maggior gettito), è quello che ha maggiormente irritato i contribuenti.

- Il valore aggiunto, pari ai ricavi (presunti) meno i costi per materie prime e beni intermedi, viene diviso per il numero di addetti, inclusi i familiari che lavorano nell’impresa e lo stesso lavoratore autonomo o imprenditore.

- Poiché il valore aggiunto serve, fondamentalmente, per remunerare l’imprenditore e i suoi dipendenti (al lordo dei contributi sociali e delle imposte) nonché per pagare interessi passivi e per gli ammortamenti, non è insensato pensare che, salvo i casi di marginalità, o di situazioni temporanee che hanno una loro legittima giustificazione, tale valore non possa scendere al di sotto di soglie minime.

Tali soglie minime sono state individuate, a partire dai dati utilizzati per l’approntamento degli studi di settore, con riferimento a ciascun settore tenendo conto anche dell’area territoriale in cui opera l’impresa. Se il valore aggiunto per addetto calcolato a partire dai dati forniti dal singolo contribuente è al di sotto della soglia minima così individuata, i ricavi presunti per quel contribuente che emergerebbero dallo studio di settore vengono aumentati aggiungendovi una quota pari al prodotto tra il numero degli addetti e la differenza tra la soglia minima di coerenza e il valore dell’indicatore.

Le soglie minime, articolate per i diversi settori, sono per lo più concentrate attorno ai 14-15mila euro.

Per quanto non sembri trattarsi di valori economicamente implausibili, in alcuni settori, tipicamente del piccolo commercio o dei servizi alle persone, i contribuenti che dichiarano, storicamente, valori al di sotto di questa soglia, magari anche non di molto, sono numerosissimi, con il risultato che, in questi settori, molti sono gli scontenti mentre l’incremento di gettito prevedibile per il fisco non è necessariamente elevato.

Le organizzazioni di categoria, che hanno sempre partecipato alla predisposizione degli studi di settore, hanno protestato per non essere state coinvolte nella definizione dei nuovi indicatori. Con un apposito comunicato, il vice ministro Visco ha chiarito che, in accordo con una prassi consolidata, nell’accertamento effettuato in base agli studi si terrà conto degli aggiornamenti di tali studi, in corso di elaborazione e concertati al tavolo degli esperti, in tutti i casi in cui essi diano risultati più favorevoli al contribuente. Ha ricordato che non vi è alcun obbligo di adeguarsi preventivamente ai risultati degli studi di settore e che vi è interesse e disponibilità a valutare assieme alle categorie i casi di marginalità economica a cui non applicare i nuovi indicatori.

Le rassicurazioni non sembrano essere state sufficienti a tranquillizzare i contribuenti e i professionisti che li assistono negli adempimenti fiscali. Non solo gli evasori, che come ovvio hanno interesse a rimanere tali, ma anche gli onesti, che atavicamente diffidano dell’Amministrazione finanziaria e non sono aiutati nella comprensione delle novità né da una produzione normativa e regolamentare molto spessa complessa, frammentaria e non sempre ben comunicata, né dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione, inadeguati ad affrontare gli aspetti tecnici del problema.

Su tutto ciò si è, come è prevedibile, innestata una speculazione politica: gli indici di normalità economica sono diventati la testa di ariete con cui si cerca di fare crollare l’intero impianto degli studi di settore. Ma siamo sicuri che il nostro paese, con un’evasione stimata attorno al 27 per cento del Pil, possa davvero permettersi di rinunciare a questo strumento di accertamento?

note

1. Un commerciante può, ad esempio, argomentare che il suo negozio è localizzato in un mercato rionale o vicino a un grande centro commerciale, e che tale localizzazione lo obbliga a una politica di prezzo difensiva.

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