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Referendum senza voce (Luca Ricolfi su La Stampa)
20.06.2007
Non tutti gli italiani lo sanno, ma da circa un paio di mesi - e precisamente dal 24 aprile scorso - si stanno raccogliendo le firme per il referendum elettorale, promosso da Mario Segni e Giovanni Guzzetta. Se il referendum dovesse passare, due sarebbero le novità più importanti: il premio di maggioranza non sarebbe assegnato alla coalizione più forte, bensì al partito più forte; nessun partito potrebbe entrare in Parlamento senza aver superato una severa soglia di sbarramento (4% alla Camera, 8% al Senato).

La scadenza per la raccolta delle firme è fra poco più di un mese (24 luglio), e non è certo che l’obiettivo delle 500 mila firme venga raggiunto in tempo utile. Nel frattempo il referendum è osteggiato dalla maggior parte dei partiti (eccetto An e Italia dei valori), e sostanzialmente ignorato dai media. Perché?

Sul perché i media, complessivamente, snobbino il referendum non ho le idee molto chiare. La ragione, probabilmente, è che il referendum interferisce con i progetti di quasi tutti coloro che - con mano più o meno lieve - controllano i media stessi: Berlusconi (che ha qualche influenza su Mediaset), il governo (che ha qualche influenza sulla Rai), i cosiddetti poteri forti (che hanno qualche influenza sui quotidiani). Sul perché i partiti non amino il referendum, invece, mi sono fatto qualche idea. A occhio e croce le fonti di ostilità al referendum sembrano soprattutto quattro.

Primo. I partiti temono che, con la brutta aria che tira in Italia verso il ceto politico, il referendum possa funzionare come un potente strumento di amplificazione dello scontento, aprendo così le porte a una nuova stagione antipolitica.

Secondo. Nonostante quasi tutti ne parlino male in pubblico, l’attuale legge elettorale - affettuosamente denominata «una porcata» dal suo ideatore, il leghista Calderoli - in realtà piace moltissimo ai nostri partiti, perché ha il pregio di garantirne la sopravvivenza, il potere di ricatto reciproco, e soprattutto la perfetta impermeabilità ai voleri degli elettori (grazie al meccanismo delle candidature bloccate).

Terzo. I partiti più piccoli hanno paura di sparire, o perdere una parte del loro potere di ricatto, perché per sopravvivere sarebbero costretti a chiedere ospitalità in super-liste costruite a partire dai partiti più grandi, soprattutto Forza Italia e Ds. Quarto. I partiti maggiori dei due schieramenti, in questa fase, preferiscono non rompere con i propri alleati minori: Berlusconi teme le bizze di Bossi, Rutelli e Fassino temono l’ira dei sette nani dell’Unione.

Naturalmente, oltre alle cattive ragioni dei partiti, ci sono le ragionevoli perplessità degli osservatori. La principale dice più o meno così: se votassimo con la nuova legge elettorale prodotta dal referendum, sulla scheda elettorale il cittadino troverebbe solo due partiti-mostro, uno con dentro tutto il ceto politico dell’Unione, l’altro con dentro tutto il ceto politico della Casa delle libertà, e subito dopo il voto i due mega-mostri tornerebbero a suddividersi - in Parlamento e nel Paese - nei soliti venti o trenta partiti-partitini-partitucci, la maggior parte dei quali abbondantemente al di sotto del 5% dei consensi.

Questa obiezione è più che fondata, e lo scenario che evoca non può in alcun modo esser escluso a priori. È chiaro che solo il Parlamento può fare una buona legge, e che nessuna legge elettorale è in grado di produrre meccanicamente e automaticamente un particolare assetto del sistema politico. Il ragionamento precedente, tuttavia, non è una vera obiezione al referendum ma solo un giusto vaccino contro la delusione. È certo possibile che, con il referendum, nulla cambi nella sostanza. Ma è anche possibile, per non dire probabile, che la mera minaccia del referendum produca un paio di esiti che difficilmente si produrrebbero spontaneamente, ossia senza lo stimolo del referendum. Il primo è di spingere i partiti, finora assolutamente colludenti e ignavi sul tema della legge elettorale, a fare una legge decente in Parlamento. Il secondo, ben più importante, è di spingere i partiti che hanno paura di essere spazzati via dalla legge elettorale referendaria ad aggregarsi in partiti più grandi, e quindi effettivamente dotati - in caso di vittoria del referendum - della doppia opzione: presentarsi da soli, senza correre il rischio di restare fuori dal Parlamento, o confluire in super-liste, puntando direttamente al premio di maggioranza.

Scenario astratto? Non direi proprio. Ds e Margherita hanno già deciso di confluire in un unico partito, il nascente Partito democratico (Pd), che dovrebbe catturare circa il 25% dei consensi. I partiti alla loro sinistra - comunisti, verdi, sinistra Ds - lo stanno già facendo, e potrebbero confluire in un embrione di «Cosa rossa» già a settembre: i sondaggi li danno fra il 10 e il 15%. I cattolici insoddisfatti del bipolarismo, o preoccupati della «deriva laica» del Partito Democratico, a loro volta stanno già pensando a costruire una «Cosa bianca», che potrebbe riunire Udc, Udeur, pezzi del mondo cattolico evocati dal Family day, anche qui con la prospettiva di raccogliere il 10-15% dei voti. Berlusconi e Fini potrebbero finalmente decidersi a fondere i rispettivi partiti, che ormai da oltre un decennio sono percepiti dagli elettori come sostanzialmente intercambiabili: il Partito delle libertà, inteso come confluenza di An e Forza Italia, è accreditato del 40% dei voti. La Lega, infine, grazie al rifiuto dei vertici del Partito democratico di dare disco verde al «Partito democratico del Nord», potrebbe riportarsi in prossimità del 10%.

Se provate a fare i conti, in tutto fa 5 partiti, che raccoglierebbero almeno il 95% dei consensi. Sono troppi, sono troppo pochi? Le analisi dello spazio elettorale, ossia delle differenze effettive fra segmenti di opinione pubblica, dicono che per l’Italia di oggi cinque-sei partiti è il numero giusto: avere solo 2-3 partiti significherebbe cancellare differenze importanti, averne 8-10 significherebbe far spazio a differenze artificiose.

Difficile dire in che misura i processi di concentrazione fra partiti cui stiamo assistendo negli ultimi mesi siano anche un effetto, più o meno inatteso, della «minaccia» referendaria. Ma non sembra azzardato pensare che avere un numero di partiti ragionevole farebbe bene all'Italia, e che a questo obiettivo il successo del referendum potrebbe dare un contributo importante. Purché, naturalmente, qualcuno informi il gentile pubblico della sua esistenza.

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