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Armonie (di Paola Carini)
10.07.2007
L’area sudorientale dell’Alaska è la terra ancestrale di una popolazione tra le più sconosciute al grande pubblico, i tlingit. I tlingit sono un gruppo autoctono famoso per gli enormi totem di legno, le tuniche chilkat di lana di capra e corteccia di cedro intrecciate insieme, la grandi abitazioni rettangolari poste tradizionalmente sulla linea di costa e gli oggetti in legno finemente incisi. Essi posseggono un’oralità ricchissima e un’arte oratoria altrettanto complessa che hanno permesso loro di conservare gran parte delle proprie tradizioni nonostante l’invasione dei russi, della Hudson Bay Company e infine degli americani. L’antropologa e scrittrice tlingit Nora Marks Dauenhauer collabora a numerosi progetti per il mantenimento e la trasmissione della lingua e, contemporaneamente, alla raccolta e alla pubblicazione di testi della tradizione orale traslitterati in alfabeto inglese.

Tradizionalmente organizzati in due grandi divisioni (metà), l’una associata al Corvo l’altra all’Aquila, i tlingit sono esogami e matrilineari. Ogni divisione ha i propri clan, ciascuno contraddistinto dalla propria araldica. La ripartizione sociale prosegue con dei clan più piccoli, cioè del territorio locale riuniti in case, unità ancora più piccole ma multifamiliari. Un bambino quindi nasce nella metà, nel clan, nella casa di sua madre e di norma sceglie il proprio consorte tra i membri dell’altra metà, anche se oggi i matrimoni misti sono pratica corrente e accettata. Al nome di ogni clan non corrisponde necessariamente il nome dell’animale totemico a cui esso è associato, ma un luogo ben preciso con cui il clan ha un rapporto particolare, e questo rapporto è incastonato e trasmesso nei racconti dalla straordinaria ricchezza della lingua.
Il nucleo della cultura tlingit risiede nella convinzione che esistano concatenazioni spirituali che formano l’equilibrio armonico che permea il mondo; il costante mantenimento di tutto ciò è quello che la Dahuehauer chiama reciprocità, cioè atti di rilevanza spirituale che contribuiscono a mantenerlo. La bipartizione in metà, in clan, l’oratoria, i racconti, gli emblemi riflettono quest’idea; in passato anche le attività quotidiane tradizionali in una società commercialmente sviluppata come era quella tlingit ne erano uguale riflesso. Ancora oggi cerimonie chiamate potlach, diffuse anche tra popolazioni limitrofe e principalmente tenute in occasione della commemorazione dei defunti, ritualizzano il riportare equilibrio spirituale attraverso significativi elogi funebri.

Nei riti funebri i clan della metà opposta vengono invitati; in questa occasione vengono elargiti cibo, coperte e regali di vario tipo. In passato come ora, all’orazione funebre di un membro del clan invitante corrisponde l’elogio funebre dei membri della metà opposta. Questa stessa mutuazione è presente anche in altri eventi pubblici; il cerimoniale nuziale, ad esempio, è corredato da una ricca sequela di canti e brani di oratoria di una metà a cui corrispondono canti e declamazioni dell’altra metà.
Il fine non è il dispiegamento di eloquenza o di ricchezze, quanto il riconoscimento che il mondo si regge su di un sistema spirituale di pesi e contrappesi in cui realtà tangibili e intangibili, uomini e animali, vivi e morti, sono necessariamente collegati. Questo pensiero si traduce in un complesso protocollo che regolamenta la vita pubblica dei clan e si fa evidente nei discorsi ufficiali, retoricamente complessi e ricchi di similitudini, anafore e metafore.

Nora Dahuenhauer riporta la traduzione del “Discorso per la Rimozione del Dolore” di Jessie Dalton, anziana tlingit della metà del Corvo e del clan T’akdeintaan che ha tenuto questa brevissima elocuzione in occasione della dipartita di un membro della metà dell’Aquila e del clan Chookaneidi. Come in ogni situazione cerimoniale, ogni partecipante indossa tuniche o cappelli che esibiscono le creste araldiche: focena, aquila e orso bruno per la metà dell’Aquila, sterna e corvo per la metà del Corvo. Attraverso rappresentazioni allegoriche la signora Dalton dà atto di riconoscere gli astanti nominandone l’animale totemico: la locuzione “le sorelle di tuo padre voleranno via”, ad esempio, indica le donne della metà opposta attraverso la visualizzazione delle sterne che si alzano in volo. Pur non rivolgendosi mai direttamente alle persone, essa le identifica ad una ad una sottolineandone, come suo compito, una relazione che non è solo sociale ma anche spirituale: spiriti e viventi, uomini e animali sono tutti ugualmente presenti.
L’orazione si fa ben presto dialogo: l’assenso dei presenti fa da contrappunto al discorso in cui la donna ricorda e ricongiunge gli aspetti che formano la comunione spirituale che sostiene il mondo. Nelle metafore confluiscono così gli spiriti animali e umani, le realtà empiriche e le realtà metafisiche, i vivi e i defunti, mentre alludendo a emblemi e creste degli altri clan reitera il rispetto reciproco fino alla catarsi collettiva conclusiva, quando l’albero che rappresenta il dolore, dopo aver fluttuato sulle onde per un po’, si arena sulla sabbia e il sole, posandogli sopra i propri raggi, lo asciuga fino al cuore.

Lo straordinario impatto di questo elogio funebre sta nella forza delle parole che evocano i legami affettivi e sociali, raccontano del dolore per la dipartita di una persona cara, lo descrivono con immagini vivide e con altre immagini altrettanto vivide lo tergono. Attenzione, però: il beneficio di una pratica così antica e così illuminata non deriva solamente dal condividere il dolore e quindi, da un punto vista psicologico, trarne sollievo, quanto dalla riconnessione della rete spirituale, solo all’apparenza interrotta da un evento luttuoso, che lega tutto e tutti. Il lutto quindi non è perdita come lo è per la maggior parte di noi, perché per persone che nella loro storia hanno saputo riconoscere che il mondo possiede una dimensione spirituale vera, fatta di vita e di amore, il dolore della morte ascoltato e vissuto in quella dimensione non è sterile, infecondo. Il valore dell’oratoria tlingit risiede proprio nel valore che essa dà al dolore, non come esperienza che schiaccia e annulla ma come fonte di un nuovo equilibrio.
Solamente in questa luce il dolore rigenera, perchè genera nuove armonie e nuovi legami e rinsalda le innervature spirituali che ci uniscono tutti quanti. E perchè diventa, in sostanza, amore.

Paola Carini

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