21.07.2007
Stanotte a Torino è morto Bruno Vasari: una persona
meravigliosa, "bigger than life", come può testimoniare chiunque
abbia avuto la fortuna di incontrarlo di persona (e purtroppo non sono tra questi).
Di seguito riporto il comunicato che compare oggi nel sito dell'ANPI, la poesia "Il superstite" che gli dedicò Primo Levi e l'introduzione di Alberto Cavaglion al libro (dal bellissimo titolo) "La libertà allo stato nascente", raccolta di articoli e saggi dall'archivio di Bruno Vasari, a cura di Barbara Berruti (Edizioni dell'Orso, 2005).
Ciao Flavio
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Bruno Vasari - Nato a Trieste il 9 dicembre 1911, morto a Torino il
21 luglio 2007, vice presidente dell'ANED nazionale e presidente
onorario dell'ANED piemontese.
Nel dicembre del 2006, in occasione del suo novantacinquesimo
compleanno, Bruno Vasari è stato festeggiato a Milano, nella sede
della Fondazione Memoria della Deportazione. Vasari, che è stato uno
dei fondatori dell'Associazione Nazionale ex Deportati, aveva
compiuto i suoi studi a Trieste. Allievo di Giani Stuparich, si era
poi laureato in Giurisprudenza e si era trasferito a Torino trovando
impiego come funzionario dell'Eiar. Da quella che sarebbe poi
diventata RAI era stato licenziato, per motivi politici, nel 1935.
Forse proprio per questo, allorché il 6 novembre 1944 era stato
arrestato a Milano dalle SS, era stato registrato come "impiegato
disoccupato".
Vasari, che dopo l'8 settembre era entrato nella Resistenza e che si
trovava a Milano in rappresentanza del Partito d'Azione, finì a San
Vittore per una delazione. Con lui Manlio Magini, Bruno Montagna e
Aldo Vespa (che era il più giovane del gruppo e che dalla
deportazione non sarebbe più tornato). Vasari fu portato da San
Vittore al campo di concentramento di Bolzano e, di qui, nel lager di
Mauthausen. Ne uscì nel maggio del 1945 e, tornato in Italia,
pubblicò subito "Mauthausen, bivacco della morte", uno dei primissimi
libri di testimonianza sui campi di sterminio nazisti.
Tornato al lavoro alla RAI di Torino, vi ha ricoperto per anni
incarichi di grande rilievo, sempre continuando ad impegnarsi
nell'ANED. Ha diretto per vent'anni Lettera ai compagni, la rivista
della Federazione italiana associazioni partigiane, idealmente legata
ai vecchi orientamenti del Partito d'Azione. Bruno Vasari ha svolto
un'intensa attività culturale, testimoniata da una ricca produzione
libraria che va dai sei volumi di poesie editi a Torino da Omega
Edizioni, ai saggi, ai testi sui lager. Soltanto per citare alcuni
titoli: Frammenti nella memoria del 1977, Il presente del passato
(1979), Giani Stuparich-Ricordi di un allievo (1999), Tecnica dei
rapporti scritti (1999), Una battaglia culturale (2001), Il riposo
non è affar nostro (2001). A Primo Levi, che nel 1984 gli aveva
dedicato su La Stampa una poesia intitolata "Il superstite", Vasari
ha rivolto l'omaggio di numerose pubblicazioni dell'ANED. Nel 1978
Sandro Pertini aveva insignito Vasari del titolo di Cavaliere di Gran
Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.
Su Vasari numerosissime le pubblicazioni, soprattutto da quando ha
donato il suo archivio all'ISTORETO di Torino.
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IL SUPERSTITE
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c'è.
"Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
PRIMO LEVI
4 febbraio 1984
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Introduzione a "La libertà allo stato nascente"
Come molte persone, prima di conoscere Bruno Vasari, ho conosciuto
B.V. Per chi non lo sapesse, o lo avesse dimenticato, B.V. è il
destinatario di una poesia di Primo Levi, Il superstite, uscita per
la prima volta sulla "Stampa" il 4 febbraio 1984. Questa poesia, per
certi versi, rappresenta l'antefatto del libro I sommersi e i
salvati, contiene gli accordi preparatori dell'ultimo, estremo
discorso di Levi sul valore della testimonianza, soprattutto, sui
suoi limiti: "Indietro, via di qui, gente sommersa,/Andate. Non ho
soppiantato nessuno,/ Non ho usurpato il pane di nessuno,/ Nessuno è
morto in vece mia. Nessuno".
Per la memoria della deportazione, per la storia dell'Associazione
nazionale ex deportati (ANED) la figura di Bruno Vasari è
inevitabilmente intrecciata con la biografia e l'opera di Primo Levi.
Nello stesso 1984 in cui veniva scritta quella poesia, da cui
scaturiva in modo del tutto evidente il senso di sgomento ("Non ho
soppiantato nessuno...") che segna l'ultima fase dello scrittore
torinese - culminante nel capitolo sulla "zona grigia" - proprio
dallo spirito organizzativo di Vasari veniva data ai torinesi
l'ultima opportunità di ascoltare Levi parlare in pubblico. Fu nel
convegno che si svolse al Consiglio Regionale, Il dovere di
testimoniare, svoltosi pochi mesi dopo la pubblicazione della poesia
dedicata a B.V. Era il 28-29 ottobre 1984. Levi venne a Palazzo
Lascaris per leggere le pagine sulla "memoria dell'offesa" che
sarebbero poi confluite nel suo ultimo libro stampato da Einaudi nel
1986.
Per un ventenne negli anni Ottanta, ignaro di tutto, B.V. era dunque,
in primo luogo, la proiezione di un testo poetico: un'elegante, e un
po' misteriosa, entità virtuale, un personaggio in cerca d'autore,
dimidiato fra realtà e trasfigurazione. D'altra parte, mano a mano
che si approfondiva l'opera di Levi, ci si accorgeva che il B.V. del
Superstite confermava, se così si può dire, in corpore vili, un
ricorrente stratagemma narrativo, ben noto ai lettori di Levi: la
reticenza di fronte alle notazioni anagrafiche, accorgimento presente
nei libri maggiori come nei racconti.
I grandi personaggi dell'opera di Levi – quei personaggi che hanno
contato, affettivamente, di più nella vita e dunque degni di essere
trasposti sulla pagina – di rado hanno un nome e un cognome. Più
spesso celano la propria identità anagrafica dietro un soprannome
(Pikolo), dietro una sigla inquietante (Null Achtzehn, l'Ultimo),
dietro la loro nazionalità (l'Alsaziano), dietro una professione (il
Medico).
Se si voleva far luce su una personalità assai più ricca e composita
bisognava "andare oltre" Primo Levi. Ciò che non è mai cosa semplice
quando si parla di deportazione italiana. Una premessa
indispensabile, ma pare chiaro a chiunque che un approccio di questo
genere non poteva in nessun modo favorire la conoscenza con Bruno
Vasari personaggio-uomo; il filtro di Levi lo allontanava e, in certa
misura ne alterava, i contorni. Nel caso di Vasari
questa "trasgressione", nel senso etimologico del termine, "passare
oltre", era assolutamente necessaria.
Il 1984 fu, per me, anche l'anno in cui quella trasgressione fu
possibile: incontrai Bruno Vasari. B.V. si materializzò poco dopo il
convegno, quando gli atti andarono in stampa. Ebbi modo di
accorgermi, (quasi) subito, che vita e letteratura, vita e poesia
sono solo in parte congiunte e di come sempre sia un errore
sovrapporre l'una all'altra. In Levi poi il problema del personaggio,
la conflittualità fra realtà e finzione, è cruciale, come hanno
dimostrato Roberti Gordon e altri acuti interpreti della sua opera.
Ed inoltre: l'idea stessa di testimonianza, che Vasari ha continuato
a coltivare, senza fratture, proprio fra il 1984 e il 1986 andava a
confliggere con la diversa, se non opposta, opinione di Levi, per lo
meno del Levi ultimo ed estremo, quello del periodo 1984-1987, che è
ben altra cosa rispetto al Levi speranzoso e ottimista dell'esordio.
Dal principio secondo cui nel Lager sarebbero periti i migliori - e
nella non meno pessimistica clausola accessoria, espressa nei
Sommersi e i salvati, secondo cui gli unici capaci di dare una
testimonianza completa sarebbero coloro che sono stati inghiottiti
nel nulla - B.V. dissentiva firmandosi per intero. Il personaggio-
uomo dissentiva in più scritti, in questo volume opportunamente
ripresi. Sostenere che gli unici testimoni "completi" avrebbero
potuto essere i sommersi, impossibilitati però a parlare dal momento
che non erano tornati, era una tesi disperata che Vasari non poteva
condividere se non a patto di delegittimare se stesso e di annullare
il lavoro portato innanzi per tanti anni, fedele al suo motto
preferito: "Il riposo non è affar nostro".
Iniziai a collaborare con lui nell'inverno successivo, svolgendo
poche, ma per me molto istruttive mansioni: nella preparazione di
qualche convegno, fui incaricato di prendere contatti con i relatori,
di accoglierli quando arrivavano a Torino, più tardi mi impegnai
nella correzione delle bozze, nella revisione di qualche testo, nella
stesura di qualche nota, nei rapporti con gli editori e nella
preparazione di pubbliche presentazioni. Ero molto giovane e fu per
me un periodo di intensa, a tratti anche frenetica attività ; ma,
nonostante l'argomento delle cose discusse insieme, che sempre
coprivano con un sottile velo di malinconia anche le conversazioni
più umoristiche, fu, anche, una gioiosa scoperta del lavoro
intellettuale, inteso nella sua concretezza, nel problem solving,
diceva Vasari, attingendo al lessico aziendale dei rapporti scritti,
delle relazioni industriali. Lavorare significa,
pragmaticamente, "risolvere problemi". In questo B.V. la pensava come
Levi. Un lessico – quello dei rapporti scritti - in effetti non
dissimile da quello prediletto dal dirigente di una azienda di
vernici, quel personaggio così sapientemente descritto da Philip Roth
nella famosa intervista. I successi nel lavoro si misurano facendo la
somma dei problemi risolti insieme. A me fu caro, non provo vergogna
a scriverlo, "correre in servizio" di B.V., la cui fama di uomo
autoritario, testardo e severo fu presto smentita dalla conoscenza
diretta, dalle lunghe discussioni, dall'affabilità dei modi, dal suo
modo tutto particolare di entrare in confidenza, dalla vastità delle
sue letture – ciò che rende a tratti sorprendente e mai ripetitiva la
conversazione con lui. Oltre a tutto il resto mi colpì la sua
insofferenza per l'ipocrisia, la sua giusta irruenza contro chi non
rispetta la parola data. Stabilire quale sia stato il significato di
quella collaborazione, che nel 2004 arriva a festeggiare un
ventennio - ed è sfociata nella realizzazione di non pochi convegni e
nella redazione di altrettanti volumi di atti -, non spetta a me
giudicare. Per parte mia posso soltanto ribadire l'importanza che
tale lavoro ha avuto nella mia formazione. Le poche cose che vorrei
esporre, nell'introduzione a questo bel libro, vogliono essere
innanzitutto la gradita occasione per sciogliere, finalmente, un
debito di gratitudine.
Si diceva del rapporto fra vita e letteratura. La cosa principale che
va detta – e questo libro sapientemente curato da Barbara Berruti lo
conferma molto bene – riguarda la radice triestina di Vasari, o
meglio sarebbe dire la vena di triestinità che egli ha sempre cercato
di imporre alla vita culturale di due città , Roma e Torino, agli
antipodi rispetto alla sua città natale.
Qualche leggero accento straniero si osserva sempre, osservando in
filigrana la prosa di Vasari, e sempre, immancabilmente, notiamo
l'avversione per ogni forma di provincialismo, il saper osservare e
possibilmente comprendere l'altro da sé. Ed è un elemento, questo
della triestinität - si potrebbe dire con il poeta Fery Fölkel - che,
di nuovo, nonostante le apparenze, contribuisce a comprendere meglio
la personalità di Bruno Vasari, sottraendolo all'obbligo, riduttivo,
di essere "soltanto" B.V.
Trieste zeleste è il titolo di una fra le più belle poesie scritte da
Vasari, con quella zeleste "z", che ai cultori di letteratura
sveviana non potrà non fare venire in mente lo scapestrato insegnante
di gerundi inglesi, James Joyce, trasformato bonariamente e
semplicemente in "Zois". Trieste zeleste s'oppone alla malinconia di
Fölkel, che amava un altro gioco di parole e soleva scrivere: Triste
trieste.
Per Vasari Trieste non è mai triste. A "Trieste zeleste" Vasari ha
dedicato le sue più emozionanti pagine autobiografiche: quelle sui
ricordi liceali, sulla giovinezza vissuta all'ombra di Giani
Stuparich e del suo insegnamento. Ed ancora vi ritorna nelle sue più
recenti poesie, o in altri scritti occasionali, nei profili di amici
come Bruno Erber. Si veda il suo Giani Stuparich. Ricordi di un
allievo (Trieste, Ed.Lint, 1999), o il bel ricordo di Sergio Miniussi
o le memorie famigliari di Luigi Cosattini, per non dire delle pagine
triestine contenute nella bella intervista resa a Veronica Ujcich (Il
riposo non è affar nostro. Intervista a B.Vasari, Pasian di Prato,
Campanotto ed., 2001), da cui s'apprende, fra l'altro, il rapporto
biunivoco fra docente e allievo, ciò che determinò, nel secondo
dopoguerra, la nascita di un romanzo di Stuparich come Simone,
chiaramente ispirato alla vicenda narrata da Vasari nel suo libretto
del 1946, Mauthausen, bivacco della morte, la prima testimonianza
uscita in Italia sull'esperienza concentrazionaria. Curioso destino,
dunque, questo di diventare un personaggio-uomo, di un romanzo in
questo caso - e molto prima che Primo Levi scrivesse la poesia Il
superstite.
A Trieste, Vasari è rimasto legato da molteplici vincoli di
conoscenza e di amicizia, e da ricordi profondi. Lo dimostra il
numero di recensioni dedicate a libri triestini, lo dimostra
soprattutto una prosa che non è mai stata penetrata dal razionalismo
subalpino verso il quale è sempre piuttosto freddo. Torino non è
mai "zeleste" e tanto vale a fissare la sua stessa idea di scrittura
ed anche la sua concezione della vita, riassumibile nella famosa
poesia di Saba, più volte citata nei suoi testi, Contovello. Quasi
un'epigrafe, che non sarebbe errato rileggere in chiave
autobiografica: "Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende/ così erta
dal monte una scaletta,/ che pare, come avanza, il piede metta/ nel
vuoto. Il mare sterminato è sotto./ Ricompare. Si affanna ancora
attorno/ quel ritaglio di terra grigia, ingombra/ di sterpi, a fiore
del sasso. Seduto/ all'osteria, bevo quest'aspro vino". Saba con le
sue scorciatoie e i suoi raccontini, composti "dopo Majdanek",
potrebbe essere stato un modello, nemmeno troppo nascosto, di un
genere letterario, che Vasari predilige (e in questi ultimi anni ha
coltivato con crescente intensità ): la prosa poetica, il frammento
breve.
Trieste rappresenta in secondo luogo, e forse principalmente, un'idea
di frontiera, l'anti-letteratura, la contrapposizione radicale
rispetto ai canoni estetici vociani e fiorentini del primo Novecento.
La categoria dell'essere triestino, alla maniera appunto di Saba,
coincide con una sorta di professione di fede. L'essere, sempre e
comunque, "di un'altra specie": una condizione di voluta marginalità ,
che Vasari ha portato a compimento in ogni fase del suo lavoro
professionale. In questo volume se ne trovano svariate testimonianze
applicate al mondo dell'imprenditoria, del sindacato, della politica
industriale.
Una categoria che si riscontra in altri triestini esuli o vissuti
fuori di Trieste, nel loro modo di contrapporsi alle vuote parole,
nel fastidio provato davanti alla perdita di tempo, alle astrattezze,
ai sofismi. Un modo stesso di opporsi alla poesia pura, l'antipatia
per il virtuosismo estetizzante, l'idea, tutta triestina, secondo cui
chi scrive troppo bene non è mai sincero. E, viceversa, il modo
personalissimo di concepire la poesia cogliendola nel suo lato
prosaico, impiegatizio. La vita vera.
Ciò che ha reso celebre in tutto il mondo la letteratura triestina, a
partire dai primi romanzi sveviani, è l'ambientazione nel mondo dei
commerci, delle banche, delle assicurazioni, delle agenzie di affari,
più tardi delle grandi industrie, del servizio pubblico
radiotelevisivo, nel nostro caso. Lo stile risente di questi modelli.
Vasari è di casa al Poveromo, così come è stato vicino al gruppo di
Calamandrei e del "Ponte", ma il suo modo di guardare alla vita e
all'arte rimane estraneo al gusto per la bella pagina e per il mito
letterario della toscanità , nel quale erano talora caduti Slataper e
gli stessi fratelli Stuparich. Il suo modo stesso di concepire la
corrispondenza privata rimanda a quell'universo. Vasari è, oltre al
resto, autore di lettere esemplari, scritte con quella sua
inconfondibile e gradevolissima grafia, un corrispondente rigoroso,
come sa essere soltanto chi ha confidenza con il mondo degli affari,
e sa che dalle incombenze materiali non è mai lecita la fuga nei
cieli della poesia, ma è invece lecita, anzi vagheggiata, l'osmosi:
fare poesia avendo per oggetto la prosa d'ufficio, della burocrazia,
dei verbali di interminabili riunioni.
Bene ha fatto, qualche anno fa, Daniele Jallà a rendere pubblica
quella deliziosa operina che è la Tecnica dei rapporti scritti
(Torino, Omega ed., 1999). Nella Tecnica Vasari scioglie per due
volte il suo debito nei confronti di un autore triestino, che è
stato, a suo modo, l'inventore di questo genere di scrittura per così
dire "aziendale" e che a Trieste ha il suo epicentro. Intendo dire
Giorgio Voghera, autore non solo del Direttore generale, citato
esplicitamente da Vasari, ma anche di un altrettanto delizioso
libretto: Come far carriera nelle grandi amministrazioni (1959,
ristampa anastatica presso la medesima casa editrice triestina Lint,
1989).
Voghera, ricorda Vasari nella Tecnica, riteneva indispensabili sia la
brevità ("anche se le sintesi sono spesso bugiarde"), sia "il dire le
cose chiaramente fin da principio". Nello scrivere non è
ammesso "fare il furbo, dire e non dire, nascondersi dietro un dito,
eludere le scelte concrete". Di suo Vasari aggiunge il culto per la
logica e per il ragionamento cartesiano. Un vero manager deve sapere
che la congiunzione "o" può essere congiuntiva, ma anche disgiuntiva.
Una cosa è dire "Questa o quella per me pari sono". Altra cosa è
dire "O mangi quella minestra o salti dalla finestra". Lo sapeva bene
chi aveva conosciuto il bivacco della morte.
E qui, visto che si è evocato Giorgio Voghera come uno degli
ispiratori della Tecnica mi sia concessa una (breve) digressione
personale. Nel 1988 – si era nel mezzo dell'organizzazione del
convegno su Primo Levi, quello che poi mise a capo del volume P.Levi
il presente del passato (1991) – nello studio di casa sua, fra mille
carte, via vai di persone, fotocopie, fax, telefono che squillava
continuamente, Vasari venne fuori con una domanda inattesa,
volutamente consolatoria, una via di fuga come solo lui è capace di
trovare quando il ritmo di lavoro si fa troppo ossessivo e si prova
la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco.
"Sa dirmi che cosa significhi la parola malmasal?", chiese a
bruciapelo, pregandomi di aiutarlo a risolvere una questione
linguistica legata a un suo ricordo d'infanzia triestino.
Non sapendo come fare proposi di dirimere la questione, interpellando
proprio lui, il vecchio saggio triestino Giorgio Voghera, di cui ero
amico, come del resto lo era Vasari, ma non sapevo che Vasari lo
conosceva, né a quell'epoca avevo avuto modo di leggere la Tecnica.
Scrivemmo senza indugio una lettera, indirizzandola alla casa di
riposo israelitica di Trieste, dove sapevo che Voghera risiedeva e
dove poche settimane prima l'avevo incontrato: la lettera, messa in
bella dalla copisteria sotto casa, fu subito pronta. La spedii io
stesso quella sera rientrando a casa.
Pochi giorni dopo, nello stile "aziendale" che Vasari e Voghera
avevano in comune, giunse, dattiloscritta, in originale a Vasari e,
in copia fatta con carta carbone a casa mia, la seguente, zeleste
risposta: "Malmasal è alla lettera chi ha una sorte amara, ma,
nell'uso corrente, corrisponde forse meglio al triestino disgraziÃ
che all'italiano sfortunato. Ossia si dice di persona che ha avuto la
sfortuna di nascere un po' inetto, un po' tonto, un po' dandan, per
dirla ancora alla triestina". Voghera citava, scrupoloso come solo
lui sapeva essere, il dizionario Rosamani, che definisce la voce
semitica: "MAR significa amaro", spiegava, "MAZAL, ma la z si legge
come s dolce italiana, significa sorte, destino, fortuna". La z
dolce, sempre. Zeleste-mazal.
La sorte, il destino, la fortuna. L'ironia triestina ha sempre un
sapore vagamente esotico a Torino, dove non manca il senso
dell'ironia, ma ha un altro sapore. Vasari si divertì moltissimo
leggendo quella lunga lettera battuta a macchina e fu un gioco
divertente vedere a chi meglio si adattasse l'epiteto fra persone di
comune conoscenza, fra gli stessi relatori del convegno che stavamo
organizzando. Vasari sa essere amabile, mai malevolo; scherzò molto
sul finale della medesima lettera, dove Voghera, dopo aver fatto, con
la sfacciataggine che gli era propria, il nome di alcuni suoi amici
triestini in fama di essere "piuttosto tangheri o qualcosa di
simile", candidamente ammetteva che, "su di un livello assai più
modesto", molti a Trieste consideravano un "malmasal" anche se
medesimo, "capace di prendere tutte le decisioni in modo di
procurarsi il maggior danno possibile".
Molte delle cose raccolte in questo nuovo libro riconducono a quel
medesimo clima, a quel modo di lavorare e intendere le relazioni
umane, a quella razionalità visionaria che a Trieste non imprigiona,
a Torino, forse, sì. Si rileggono in questo volume, con piacere,
testi poco conosciuti messi insieme da Barbara Berruti e
provvidenzialmente sottratti all'oblio. Ed è una gradevolissima
opportunità che ci viene data. Si tratta, in alcuni casi, di una vera
e propria scoperta: conferenze, relazioni a convegni di lavoro,
rapporti su delicate questioni come l'informazione televisiva, la
nascita della Rai e del servizio pubblico, interventi d'argomento
politico, fra cui si distingue un originale contributo scritto a
proposito della questione del divorzio.
Riscopriamo, con gusto, quel tono apparentemente protocollare, e
invece molto acuto e psicologicamente sottile, che ritroviamo anche
nel libro su Mauthausen e che conferisce alla narrazione – quale che
sia l'argomento trattato - l'oggettività di un documento che ha
sempre bisogno di rendersi autorevole attraverso date, cifre. Il nudo
linguaggio delle cifre per Vasari è sempre più eloquente di qualsiasi
discorso. Vengono in mente le frasi terribili sull'ospedale del
campo: "Gli ammalati furono ammassati a 4, a 5, persino a 6 nei letti
di m. 1,80 x 0,80 senza riguardo alle loro condizioni: furono così
trattati anche dei pneumonitici e degli erisipelatosi con febbre a 40
gradi". Riscopriamo, infine, in ogni passaggio, quel gusto
particolarissimo per la citazione aforismatica, per la scrittura
stessa, "a frammenti", teorizzata nella Tecnica dei rapporti scritti;
ritroviamo l'auto-ironia comica del Non sum dignus, un vero e proprio
leitmotiv.
A differenza di Voghera, che volutamente non fece mai carriera,
Vasari è asceso ai vertici della Rai, ma la sua salita è stata sempre
accompagnata da '"umane preoccupazioni": l'auto-ironia, unita
all'amore per il dialetto triestino, sfocia addirittura in un
sillogismo platonico, evocato per stigmatizzare quello che, secondo
Vasari, sarebbe l'errore più diffuso nel lavoro aziendale, la
deduzione sbagliata: "Premessa: egli (il cane) è vostro ed è un
padre", si legge nella Tecnica dei rapporti scritti. Deduzione
(sbagliata): Egli è vostro padre (fiol d'un can)".
Il dialetto, la passione per la citazione fulminea, conducono diritti
verso un'ultima passione triestina: il paradosso. Non si dimentichi
che il trattatello sulla tecnica dei rapporti scritti si chiude con
un omaggio a quello che Vasari reputa il più eccellente e geniale
dei "rapporti scritti", ossia la lettera con cui, in tono sempre
protocollare, Einstein avvertiva, il 2 agosto 1939, il presidente
Roosevelt della possibile catastrofe nucleare derivante dalla
scoperta delle potenzialità energetiche dell'uranio. Nel vedere l'uso
che Vasari fa di questa lettera viene subito in mente lo stesso tono
tragicamente ironico, con cui si chiude La coscienza di Zeno, con
l'annuncio di un pericolo imminente, di un'esplosione universale.
Ci si congeda da questo libro con due osservazioni proiettate verso
il futuro e destinate al lettore più giovane, che probabilmente non
conosce né B.V. né Bruno Vasari.
Da un lato, si esce dalla lettura di queste pagine rafforzati nella
convinzione che "il presente del passato è la memoria", ma, si
potrebbe aggiungere, il presente del futuro è la speranza. Dall'altro
la lettura di queste pagine ci conforta soprattutto nell'idea che il
lavoro sia sempre il frutto di un'azione non individuale, ma
collettiva, "di squadra". A dispetto delle apparenze Bruno Vasari non
ha mai fatto nulla di testa sua. E per lui, per il suo modo di
concepire il lavoro, si può dire che valga la saggezza dell'adorato
Keynes, citato all'inizio della Tecnica dei rapporti scritti: "E'
incredibile a quante sciocchezze si possa temporaneamente credere se
si pensa per troppo tempo sa soli".
Alberto Cavaglion
Torino, agosto 2004
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