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Intrecci (di Paola Carini)
2.08.2007
Minuscoli come un ditale o dalla circonferenza enorme, tondi, ovali, quadrati, a due o più colori, a disegni stilizzati o arricchiti di conchiglie, piume e pietruzze colorate, i cesti nativo-americani erano e sono espressione artistica sia della cultura che della spiritualità di quelle popolazioni. Dal Canada alle terre asciutte del sudovest americano, dalla costa orientale a quella pacifica, l’arte dell’intreccio variava a seconda delle specie vegetali impiegate, delle tradizioni culturali, nonché dalle tecniche e dalla bravura dell’intrecciatore, quasi sempre donna. Che siano pratici oggetti quotidiani oppure destinati ad un uso sacro, anche quando commercializzati i cesti rimangono testimonianza estetica del modo nativo-americano di intendere la vita e il mondo. Mabel Mckay, una tra le più famose intrecciatrici di origini pomo (California del Nord), l’ultima discendente del gruppo pomo di Long Valley Cache Creek, così famosa per i suoi cestini (i suoi pezzi sono in mostra permanente presso il museo dello Smithsonian dedicato alle culture autoctone), che già nel 1934, a poco più di vent’anni, venne intervistata e fotografata dal quotidiano “Sacramento Union”, colei che negli anni ottanta Giovanni Paolo II chiese di incontrare durante il suo viaggio statunitense, rispose così a chi gli chiese chi le avesse insegnato l’arte dell’intreccio: “Non si tratta di arte, si tratta di spirito.” E, al di là della sua esperienza specifica di intrecciatrice legata al fatto che fu l’ultima guaritrice e sognatrice della sua gente, si può davvero affermare che ogni cesto nativo-americano è più che singole fibre incrociate con maestria e pazienza le une alle altre: esso è frutto, al pari dell’architettura, dell’ethos e delle credenze spirituali tribali. Visto da questo punto di osservazione, l’intreccio nativo-americano non è solamente arte, tanto che per Mabel non esiste una graduatoria tra cestini più o meno fatti bene, ma una delle manifestazioni dell’essenza più profonda di un popolo.

Gli tsalagi (cherokee) del North Carolina mantengono l’impiego tradizionale di stecche di quercus lobata colorate nelle tonalità del rosso con l’estratto di sanguinaria canadensis, un piccolo fiore bianco dalle foglie larghe e lobate. Col coperchio o con il manico, da trasportare sulla schiena e fissare al capo con una corda di tessuto come nel passato, oppure oggetti d’arte da vendere ad un mercato in ascesa, i cesti cherokee si trovano sparsi in collezioni pubbliche e private, in musei come il Peabody Museum di Harvard, ma sono anche acquistabili attraverso il Qualla Arts and Crafts Mutual, la cooperativa che riunisce generazioni di intrecciatori dal 1946.
Le intrecciatrici ganienkahake (mohawk) della riserva di Akwasasne utilizzano la tecnica di sovrapporre un ulteriore intreccio, colorato precedentemente con della baptisia tinctoria, a quello di base: il risultato è il contrasto cromatico tra la tonalità del frassino del primo e l’indaco del secondo. I micmac del Maine, gruppo tribale che ha sofferto particolarmente della sottrazione totale delle terre tribali e del mancato riconoscimento federale fino al 1970, hanno fatto di necessità virtù: nel corso del ventesimo secolo hanno mantenuto viva la tradizionale arte dell’intreccio per arrotondare i modesti salari di impieghi estremamente umili. Interamente fatto di xerophillum tenax, nel 1982 l’intrecciatrice ahousat Jeanne Webster di Vancouver riprodusse in uno stile risalente a più di duecento anni fa un cesto conico dalle dimensioni notevoli. I tohono o’odham intrecciano salice e yucca e riproducono il motivo del sentiero della vita, una linea continua che crea un apparente labirinto al cui inizio viene posta una stilizzata figura umana, ma gli intrecci più famosi, la cui nomea si estende ben oltre i confini delle raccolte museali, sono quelli degli indiani della California.

La vallata di Yosemite era la terra ancestrale di miwok e paiute. Quando il Parco Nazionale venne istituito, le popolazioni nativo-americane della zona trovarono nella vendita di cestini un buon mezzo di sostentamento. La peculiarità di questi cestini, spesso rielaborati nei motivi e nei colori tradizionali, erano le dimensioni notevoli e l’intreccio a spire, che dava la caratteristica forma ovale interpuntata da motivi geometrici colorati con felce aquilina (pteridium aquilinum). Nel 1933 Lucy Telles (di discendenza miwok e paiute) produsse un cesto del diametro di più di ottanta centimetri che impiegò quattro anni ad intrecciare e che ora è esposto nel museo del Parco, ma sono soprattutto i cestini delle intrecciatrici pomo ad essere i più noti e i più apprezzati.

Elsie Allen (1899-1990) fu tra coloro che riportarono in auge l’arte tradizionale dell’intreccio pomo e che contribuì a diffonderne la conoscenza e l’apprezzamento. Figlia e nipote di famose intrecciatrici cresciuta tra gli stenti come tutti gli indiani della California, Elsie imparò le tecniche più antiche dell’intreccio e iniziò ad esporre le sue creazioni in ogni possibile occasione pubblica. Nel suo libro autobiografico accenna alle difficoltà che incontrò: tradizionalmente i cestini venivano seppelliti insieme ai defunti o a chi li aveva creati, mentre sua madre le aveva fatto promettere di tenerli e di farli conoscere. Le critiche furono diverse, dal fatto che avrebbe rivelato tecniche segrete alla paura che altri avrebbero potuti copiarli, venderli e ricavarne molto denaro. Elsie mantenne la promessa tutta la vita e con i guadagni della vendita dei suoi cestini, insieme ad altre donne, raccolse per decenni denaro per borse di studio per ragazzi indiani, denaro per aiutare famiglie indiane particolarmente indigenti, denaro per aiutare la sua gente.

Nel libro, Elsie elenca le piante necessarie: salice, radici di carex lanuginosa, di cercis occidentalis, di scirpus pacificus, tutte piante erbacee perenni, e il periodo e il modo in cui raccoglierle. I disegni sono geometrici, le dimensioni variano da quelli in miniatura ad altri molto più grandi per conservare alimenti, le tecniche sono diverse a seconda della forma finale – a spire, a canoa, con l’aggiunta di piume o pietre colorate – e della destinazione d’uso, come ad esempio i cesti per spulare le ghiande liberandole dai residui indesiderati, i cestini per le bambole e i cestini per contenere i bambini, una sorta di cesta aperta davanti con due piccoli, robusti rami inseriti in senso orizzontale in corrispondenza della testa e dell’addome del bimbo.
Ora la pronipote Susan Billy, alla quale la zia insegnò la tradizionale arte pomo, è la principale erede di un patrimonio culturale e artistico inestimabile. Lei stessa espone le sue produzioni in vari musei nazionali e cura mostre come quella all’Oakland Museum of California in cui, insieme alla figlia di Elsie, vennero esposti tutti i cestini della collezione Allen, quelli cioè di Elsie rimasti all’interno della famiglia e della cerchia di amici, ed altri di meno note intrecciatrici pomo. Come altri intrecciatori nativo-americani, anche Susan segnala un dato allarmante: col passare degli anni le piante spontanee usate per l’intreccio sono quasi scomparse a causa dell’uso massiccio di pesticidi, negli anni passati irrorati da aerei che sorvolavano le zone boscose della California. Allo stesso modo, la varietà di frassino più usata per l’intreccio, il fraxinus ornus, sta letteralmente scomparendo da ampie aree della zona nordorientale del continente per gli stessi motivi di inquinamento.

Le difficoltà di reperimento delle piante non sono solo dovute alle sostanze tossiche sparpagliate indiscriminatamente su flora e fauna. In California la gran parte delle numerose nazioni indiane non possiede né le terre ancestrali né piccole parti di esse e per anni la raccolta delle piante è stata una sfida paradossale. Nessuno come un intrecciatore sa come raccoglierle con cura, in modo che ce ne sia sempre in abbondanza, rispettando l’equilibrio dell’ecosistema. Ora le cose sembrano lievemente cambiate: dal novembre scorso nei 35 milioni di acri che sono sotto la tutela del Servizio Forestale e del Bureau of Land Management dello stato, la raccolta per uso tradizionale è permessa e tutelata. I modi sono diversi e vanno incontro alle esigenze, diverse, degli intrecciatori: nel sud della California preferiscono avere permessi, nel nord preferiscono non averne; comunque sia, la legge include anche le tribù non riconosciute a livello federale. Rimangono fuori i terreni dei parchi nazionali e dei parchi dello stato, ma l’associazione che riunisce gli intrecciatori nativo-americani della California è fiduciosa. Fiduciosa che una tradizione così antica, così intrisa di echi di storia, di identità personale e tribale, di cultura e di spiritualità continui a esistere.
Fiduciosa che verrà compreso che ogni cesto, intreccio ineludibile tra la storia individuale di chi lo ha creato e quella collettiva della sua gente, è ben più che un cesto.
Che esso è, sopra ogni cosa, vita.

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