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Giorgio Amendola (di Iginio Ariemma)
27.08.2007
Ho sempre trovato singolare ridurre una personalità così complessa e ricca come Amendola in una formula. Ciò vale per ognuno di noi, per ogni persona. Ma in modo particolare per Amendola. Persino la definizione di Amendola come comunista riformista non mi convince. A. è stato certamente un riformista pratico, forse il dirigente che ha portato all’estremo il riformismo di fatto del Pci, ma credo che non avrebbe amato essere chiamato riformista e tanto meno riformista mimetizzato, per usare l’espressione di Giuliano Amato e Luciano Cafagna in “Il duello a sinistra”.

A me non piace neppure la definizione di comunista di destra. Questa definizione ha un fondamento se si guarda la collocazione all’interno del partito, molto meno se si guarda ai contenuti e alle proposte nell’arco della sua vita politica.

In realtà A. era un comunista, un comunista sui generis se si vuole, ma un comunista italiano. Amendola non ha mai spezzato i pilastri fondamentali che hanno sostenuto ill disegno strategico del Pci. Talora ha cercato di metterli in discussione, ma non li ha mai spezzati. Questi pilastri – è bene ricordarli, data la confusione sul PCI - sono:

1) il legame con la rivoluzione di ottobre che era la matrice originaria del Pci e anche il suo peccato originale. Il che non significa che Amendola fosse filosovietico; anzi è stato uno dei critici più severi dello stalinismo e delle sue radici. Diceva nei colloqui privati che chi gli aveva aperto gli occhi sulla realtà del socialismo sovietico e dello stalinismo era stato Celeste Negarville. A Leo Valiani che gli rimprovera che nel ’37 non poteva non sapere dei delitti di Stalin risponde: “ Eravamo corresponsabili anche senza saperlo perché ammettevamo il principio della necessità del terrore che per noi richiamava quello giacobino”. Come si vede siamo alla radice della corresponsabilità comunista. “La critica a Stalin, scrive A. nel 1961, non colpisce qualcosa che è fuori di noi, ma ciò che è in noi, ciò che vi è stato e ciò che vi è ancora”. La condivisione di A. della politica sovietica nei confronti dell’Afghanistan degli anni Settanta, così come la sua “tiepidezza” nei confronti della rivoluzione cecoslovacca del ’68, rispondono non ad un presunto filosovietismo, ma alla sua visione, di realpolitik, dei rapporti di forza a livello mondiale e dei pericoli , addirittura di una terza guerra mondiale, insiti nella rottura del bipolarismo.

2) La convinzione che si potesse e si dovesse arrivare al socialismo attraverso la via democratica. Alla base di questo disegno strategico c’era l’antifascismo e la Costituzione repubblicana. Ricordo perfettamente il comizio di Amendola a Torino nel 1975 in cui Amendola, indispettito, si mise i foglietti preparati in tasca, parlò a braccio e rivendicò il carattere tricolore e unitario della Resistenza, sfidando le civetterie (è un vocabolo suo), di Guido Guazza, mio professore all’Università, che aveva parlato prima di lui ed i fischi dei giovani di Lotta Continua, che gremivano quasi metà della piazza San Carlo.

3) La strategia di unità nazionale. Il Pci poteva andare al governo soltanto in un quadro di unità nazionale. Su questo punto ci sono state varianti tattiche ma non strategiche. Anche il compromesso storico rientra in questa linea.
Tratto originale di A. che maggiormente lo differenzia rispetto agli altri dirigenti è il tenace e coerente perseguimento dell’unità tra le forze di ispirazione socialista e di matrice laica e liberale, fino alla proposta del partito unico. Nel quadro però sempre della più larga unità nazionale, che considerasse anche la Dc o parti di essa. Nelle “lettere da Milano” A. scrive che è stato Rodolfo Morandi a insegnargli l’importanza della Dc e della più larga unità nella Resistenza e dopo. L’unità a sinistra, era per A. una delle condizioni principali nella lotta al fascismo, e dopo, negli anni della Repubblica, per non essere egemonizzati dalla DC.

4) L’egemonismo operaio, cioè la funzione egemonica e nazionale della classe operaia attraverso una giusta e adeguata politica delle alleanze. Il progetto del Pci era fondato sull’egemonia operaia mentre quello della Dc, che in definitiva è stato vincente, si rivolgeva al ceto medio. “La classe operaia italiana”, il suo lungo saggio uscito nel ’68 sottolinea lo scarso peso specifico degli operai nella società e quindi la necessità di larghe alleanze sociali e politiche, ma ne difende il ruolo e polemizza con Herbert Marcuse sul tema dell’integrazione della classe operaia nelle società occidentali.

5) La concezione del partito. Amendola si era iscritto al Pci nel 1929, abbandonando Ugo La Malfa, Fenoaltea e gli altri, convinto che la lotta al fascismo e la modernizzazione dell’Italia non potesse essere opera di una lotta di piccoli gruppi o di forze individuali ma avvenisse soltanto attraverso la lotta e un partito di massa. Di qui i “dogmi” sul partito: la santificazione dell’unità, il rinnovamento nella continuità, il centralismo democratico e così via.

Questi pilastri producevano una ricerca continua e assillante di quello che potrebbe essere definito il comunismo democratico. Berlinguer è il segretario che ha portato alle estreme conseguenze il sogno del comunismo democratico, estendendolo anche ad altri che comunisti non erano, ma Amendola è parte integrante, a tutti gli effetti, di questa ricerca. Questi pilastri sono stati anche i miei. Il loro crollo ha portato nel 1989, ma i segnali erano precedenti, al logoramento e allo scioglimento del Pci.

Il tentativo in atto di collegare Amendola a Craxi, di fare di Craxi in contrapposizione a Berlinguer l’erede anche di Amendola mi pare improprio. Infatti il modo di intendere il processo di modernizzazione del Paese, di cui l’austerità e la moralizzazione della vita pubblica erano i capisaldi, era simile in Amendola e Berlinguer. Non così si può dire per Craxi. Come dirò in seguito sulla linea del compromesso storico A. ha avuto notevoli perplessità e riserve critiche, ma queste concernevano non la politica di unità nazionale ma la conduzione e in particolare il rapporto con la DC e la mancata intesa tra le forze di sinistra. Anche su questo versante la politica craxiana non può essere identificata con quella di Amendola.

Non è mia intenzione infliggervi i miei ricordi personali. Né quelli torinesi né quelli successivi, dal 1977 al 1979 quando ebbi la fortuna di avere l’ufficio alla direzione nazionale del partito, al quarto piano di Botteghe Oscure, a pochi metri da quello di Amendola. Mi veniva abbastanza spesso a trovare (io non osavo andare da lui) per parlare soprattutto del sindacato, degli scioperi e delle nuove forme di organizzazione operaia. Allora mi occupavo dei problemi del lavoro come vice di Giorgio Napoletano, al dipartimento economico.

Amava Torino e ci tornava almeno una o due volte l’anno. Ho avuto l’onore di accompagnarlo a ritrovare i luoghi della memoria dei tre mesi e mezzo in cui fu a capo della Resistenza torinese mentre completava “Le lettere da Milano” (è uscito nel 1973), in cui ci sono pagine molto belle sulla città della Fiat.

Ho conosciuto Amendola da vicino nel 1968. Anche se già ne conoscevo gli scritti e i discorsi prima, essendomi iscritto al partito nel 1960, dopo le manifestazioni antifasciste contro il governo Tambroni. Nel 1968 ero segretario dei giovani comunisti torinesi e nel febbraio 1969, al dodicesimo congresso, entrai nel Comitato centrale del partito.

Amendola, come è noto, ebbe una posizione critica nei confronti del ’68. Il suo articolo su Rinascita (7 giugno) che aveva un titolo sicuramente infelice “La necessità della lotta su due fronti”, contro l’opportunismo socialdemocratico e contro l’estremismo, ci fece molto discutere. Noi giovani eravamo con Luigi Longo che invece incontrò i capi del movimento studentesco, compreso Oreste Scalzone e gli altri capi estremisti, e riconobbe la valenza rivoluzionaria del movimento degli studenti a fianco degli operai. Amendola, ancora nel ’78, in una lettera privata a Napolitano ha rimproverato a Longo questo errore politico compiuto per motivi elettorali.

Nell’articolo citato era evidente, insieme alla necessità di una lotta più decisa all’estremismo, il fastidio verso le lotte studentesche così come si svolgevano e più in generale verso ogni forma di movimentismo che non fosse sotto la guida responsabile del partito e del movimento operaio organizzato. In Amendola c’era “incomprensione” sull’origine e su ciò che è stato il ’68: “una svolta culturale” l’ha definita Aldo Moro proprio in polemica con la tesi di Amendola in un articolo per il “Giorno”, in occasione del decennale del ’68. L’articolo inedito è stato trovato nella borsa di Moro quando fu rapito dalle BR nel marzo del 1978.

Non so se ha ragione Paul Berman, il saggista statunitense, (Il Sessantotto, Einaudi 2007) quando scrive che il ‘68 è parte di una ribellione ciclica mondiale ma certamente ha ragione quando scrive che il fenomeno ha avuto una estensione planetaria che si è manifestata a ovest, dagli Usa all’Europa, fino a est come testimonia la tragica vicenda cecoslovacca che ci pose davanti la mortificante realtà del socialismo realizzato. La svolta culturale esprimeva infatti un comune modo di sentire e di essere di una generazione nuova, una ricerca di nuova qualità, antiautoritaria, delle relazioni personali e sociali, soprattutto nel campo dei diritti e del rapporto uomo-donna e tra generazioni.

Anche sulla questione operaia che è esplosa soprattutto nell’autunno caldo del 69, Amendola non comprende appieno né la portata né la novità. Con motivata ragione continuava a scrivere che la riscossa operaia aveva avuto inizio nei primi anni Sessanta, ma non comprendeva che le nuove forme di lotta e di democrazia operaia (assemblee, delegati, consigli di fabbrica) esprimevano un orientamento nuovo tra i lavoratori collegato strettamente alla crisi del fordismo, al tramonto della figura dell’operaio-massa e, per dirla con Bruno Trentin, alla fame di libertà e di autonomia degli operai , negata dall’organizzazione tayloristica, da realizzare nel lavoro e nel processo produttivo. E’ in quel biennio che la questione operaia diventa nel nostro Paese una dirompente questione sociale che attraversa il Nord e il Sud e travolge la politica. La sua analisi del ‘68 però conteneva consistenti elementi di verità che emergeranno con nettezza dopo, specialmente negli anni Settanta e in particolare dal 1977 in poi. Se il ‘68 è stato un movimento con una sua significativa autenticità e una sua genuinità, pur in una cornice di generale mimetismo (la definizione è di Adriano Sofri), il ‘77 ne è stato la degenerazione come ha descritto efficacemente Luca Rastello nel bel romanzo torinese, credo autobiografico, “Piove all’insù”. Sotto questo aspetto ho trovato, invece, senza pudore il recente saggio sul ‘77 di Lucia Annunziata, la quale continua, trent’anni dopo, a scaricare sul Pci- padre, le proprie colpe, neppure tanto giovanili.

Amendola fin da subito ha intravisto i “cascami” del 68 cioè il narcisismo individualista, la frenesia consumistica e carrierista,il disprezzo verso ogni forma di disciplina ed di ordine, l’irresponsabilità anarcoide, e soprattutto il pericoloso e inquietante legame che poteva generarsi tra questi cascami, l ’estremismo, la violenza, la lotta armata e il terrorismo. Recentemente ho trovato nell’intervista di Alberto Franceschini a Giovanni Fasanella sulle Brigate Rosse (BUR 2007) molti argomenti che danno ragione ad Amendola: la lotta armata nasce prima, nel ’68, e non dopo la strage di Piazza Fontana nel dicembre ‘69; tutti i gruppi estremistici, compresa Lotta continua, ne sono in parte coinvolti; l’album di famiglia e il fiancheggiamento erano molto ampi e riguardavano tutta la sinistra, compresi i socialisti, delusi dal centrosinistra e il mondo cattolico progressista, non soltanto il Pci. Anche sul massimalismo corporativo di parte del sindacato, un concetto che trovo acuto e ancora attuale, da lui inventato e sul quale insisteva molto , Amendola coglieva nel segno.

Specialmente con il passare degli anni. Posso esserne testimone perché veniva spesso a parlarmene nel mio ufficio di Botteghe Oscure. I temi erano quelli soliti: la mitizzazione delle nuove forme di democrazia operaia, l’insufficiente legittimazione democratica dei delegati, i guasti dell’incompatibilità e della pariteticità sindacale, gli scioperi nei servizi pubblici, l’assenteismo, il doppio lavoro e il lavoro nero. Io difendevo il mio lavoro, passato e presente, e quello dello Cgil. Ma devo riconoscere che la mia difesa, mano a mano che il tempo scorreva, e i delegati non venivano rinnovati, la violenza nei cortei all’interno delle officine aumentava e la politica dell’EUR veniva disattesa, diventava sempre più debole.

Nei confronti del ‘68 inoltre Amendola ha un grande merito che finora non gli è stato riconosciuto. L’aver posto per primo, nell’agosto del 1969, e in un modo determinato e schietto come era nel suo stile, il problema dello sbocco politico delle lotte operaie e giovanili di quel biennio, dato il fallimento del centrosinistra. Secondo Amendola questo sbocco richiedeva la partecipazione dei comunisti a pieno titolo nel governo, con la formazione di una nuova maggioranza alternativa al primo centrosinistra. Si aprì subito una discussione. Nel partito e fuori di esso. La rivista “Problemi del socialismo” e in particolare Lelio Basso scrisse che l’ingresso nel governo del Pci avrebbe significato la subalternità nei confronti della Dc. Occorreva invece “organizzare e costruire giorno per giorno nuovi contropoteri e nuove strutture nella società”. Amendola gli rispose su “Critica marxista”: il Pci “non voleva partecipare in una condizione subalterna ad una coalizione dominata dalla Dc” ma questa non impediva di porsi l’obiettivo della formazione di un “governo democratico delle classi lavoratrici che senza essere ancora un governo socialista, apra, operando nel quadro della costituzione repubblicana, e attuando le riforme, la via ad una trasformazione democratica e socialista”. All’interno del partito la sua proposta venne ritenuta troppo accelerata rispetto ai tempi. Anch’io allora non ne colsi l’importanza. Del resto la federazione torinese del Pci era come orientamento in prevalenza ingraiana; e quindi prestava più attenzione al modello di sviluppo necapitalistico e alla necessità che le lotte operaie si opponessero a tale modello che alla debolezza e incapacità della borghesia italiana di dare compimento al Risorgimento e alla politica dei mille rivoli di matrice amendoliana; più attenzione alla costruzione della democrazia dal basso che alla questione del governo. Io fui eletto segretario della federazione alla presenza di Ingrao che a tal fine fu inviato dalla Direzione.

La questione dello sbocco politico trovò poi soluzione, in parte con il Congresso di Milano del 1972 e in maniera più compiuta con il compromesso storico lanciato da Berlinguer. Ma eravamo già nell’autunno del 1973. Quattro anni dopo. Amendola ripeteva spesso una frase che mi è rimasta impressa: “Una generazione che non riesce a conquistare il governo del Paese è una generazione che ha fallito nel suo compito fondamentale”.

Gli ultimi anni di Amendola sono stati amari e pesanti. Non soltanto per l’aggravarsi della malattia e delle sue condizioni fisiche (lo vedevo sempre più scarno), ma anche per i rapporti tormentati con il partito. E’ noto che Amendola ebbe verso il compromesso storico, specialmente dal ‘76 in poi una posizione che è stata definita tiepida, ma che in realtà deve essere definita critica. Queste riserve si manifestarono nei momenti più caldi della politica nazionale: nell’estate del ‘76 quando il Pci si astenne di fronte al primo governo Andreotti e nel ‘78 dopo l’accordo programmatico e l’ingresso del Pci nella maggioranza ma non nel governo. Amendola vi vedeva una preoccupante subalternità da parte del Partito. Temeva soprattutto l’egemonia della Dc. Riteneva che il compromesso storico, soprattutto nella versione rodaniana, con il suo organicismo, coprisse questa egemonia e nello stesso tempo non si opponesse con sufficiente severità al massimalismo corporativo (il rivendicazionismo senza scopo e con contropartite) e a quelle forme di movimentismo e di estremismo che da anni denunciava. Il suo cruccio principale e anche il suo nemico era il partito dell’inflazione che secondo lui minacciava le basi finanziarie ed economiche del Paese, producendo disoccupazione o occupazione fittizia e assistita, oltre a mettere in pericolo la legalità e la stessa democrazia. Una delle riserve più profonde che nutriva nei confronti della classe operaia torinese e in particolare verso i lavoratori della Fiat è che essi non combattessero la politica inflazionistica della Fiat accontentandosi di briciole e di miserevoli contropartite. L’articolo del novembre 79, pochi mesi prima di morire, dal titolo “Interrogativi sul caso Fiat” sollevò un grande scalpore dentro e fuori il partito. Rammento il nervoso imbarazzo di Giorgio Napolitano e soprattutto di Gerardo Chiaromonte che aveva da poco sostituito il primo nel dipartimento economico. Io ero già con un piede nel Veneto. Non condividevo l’analisi di Amendola che consideravo unilaterale e allarmistica. A mio parere rifletteva la paura tipica di A. che si ripresentasse sulla scena mondiale la crisi degli anni Venti, da lui vissuta direttamente, che aveva portato alla vittoria del fascismo prima e del nazismo poi. Tuttavia non mi convinse nemmeno la risposta di Berlinguer nel comitato centrale di poche settimane dopo. Berlinguer gli rispose male, tra l’altro con una frase molto pesante e ingiusta accusando Amendola di non tenere presente l’abc del marxismo e di farsi portatore di una proposta politica che non mirava alla trasformazione della società, ma alla sua razionalizzazione.

Invece anche in quella occasione, nelle cose che Amendola sosteneva, c’era un fondamento di verità, che forava la realtà, per usare il gergo giornalistico. Questa parte di verità verrà in piena luce un anno dopo, nell’autunno 1980, proprio qui a Torino con la marcia dei quarantamila tecnici e impiegati e con la sconfitta della classe operaia torinese dopo l’occupazione della Mirafiori. Ma Amendola non c’era più.

Iginio Ariemma

Torino 7 maggio 2007

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