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Veltroni all'Università estiva di Les Graques a Parigi
1.09.2007
Sicurezza, Ambiente, Precarietà: le nuove sfide globali del Centrosinistra
Cari amici,
vorrei ringraziarvi per avermi invitato a essere oggi qui, assieme a voi, ospite del Circolo "I Gracchi". Il titolo che avete scelto per questo dibattito, "Le raisons politiques de la défaite et les voies de la refondation", rimanda ovviamente, per prima cosa, al vostro Paese, all'esito delle elezioni presidenziali, alla riflessione che si è aperta nella sinistra francese all'indomani della bella e coraggiosa battaglia condotta da Ségolène Royal e dopo il risultato delle elezioni legislative.
Io vorrei però dire subito che questa riflessione sul futuro, sulle strade da prendere per aprire una nuova stagione, è qualcosa che riguarda tutti noi, tutto il vasto campo delle forze di sinistra e di centrosinistra in Europa. Lì dove si è perso, certo, in Francia come in Germania; ma anche in quei Paesi, come il mio, dove un anno fa siamo tornati al governo, con Romano Prodi. O dove invece l'esperienza di governo dura da un decennio, come in Gran Bretagna, perché anche le migliori idee e le soluzioni più efficaci non possono restare per sempre uguali a se stesse, hanno bisogno di un costante aggiornamento.
Ed è una riflessione, quella sul futuro della sinistra e del centrosinistra, che riguarda tutti anche dal punto di vista della storia e dell'identità di ognuno. Riguarda i partiti socialisti e socialdemocratici di antica origine, chiamati oggi a rinnovare profondamente la loro strategia e i loro programmi. E riguarda chi, come accade a noi in Italia, insieme al compito di adattare la sua visione e le sue proposte ai problemi del XXI secolo, ha l'esigenza di misurarsi una volta per tutte con la vicenda complessa e articolata della sinistra, per ricomporre finalmente le divisioni che hanno attraversato il campo del riformismo.
La strada che abbiamo scelto, lo sapete, è quella iniziata più di dieci anni fa, quando nacque l'Ulivo. Il progetto in cui siamo impegnati, e che il prossimo 14 ottobre avrà il suo momento fondante, è quello di dar vita ad un partito nuovo, al Partito democratico. La grande forza riformista che l'Italia non ha mai avuto.
L'incontro, che non è semplice accostamento ma creazione nuova, di culture e forze che hanno deciso di superare la loro parzialità, la loro separatezza, la loro insufficienza, e di portare all'approdo più avanzato quel "libero scambio delle idee" che una volta proprio Anthony Giddens, intervenuto qui stamattina, ha definito condizione indispensabile di ogni innovazione politica.
Ecco, io credo che ogni riflessione su come possiamo incamminarci lungo una via nuova debba partire da qui, da questa constatazione: di fronte ai problemi che oggi si pongono dinnanzi a noi, nessuna delle grandi famiglie ideologiche che rientrano nel vasto campo del centrosinistra europeo, né il socialismo, né il liberalismo di sinistra, né il cattolicesimo democratico, possiede, da sola, le soluzioni sufficienti. Nessuno di noi, nessuna delle nostre culture politiche, è in grado, da sola, di fornire tutte le risposte alle grandi novità con cui dobbiamo misurarci, con cui la vita delle persone si misura ogni giorno.
Viviamo in un tempo di grandi e profondi cambiamenti.
Cambiamenti che all'interno di ogni singolo Paese hanno a che fare con il frantumarsi dei tradizionali aggregati collettivi, con la difficoltà di sostenere economicamente le istituzioni di welfare così come le abbiamo conosciute fino ad oggi, con una individualizzazione delle attività lavorative e dei modelli di vita che rende le nostre società "società degli individui" e non più delle classi, dei "consumatori" e non solo dei "produttori"; comunità di persone che chiedono libertà e possibilità di scelta, che non vogliono più essere guidate, ma vogliono avere informazioni, partecipare, essere più responsabili del proprio destino.
Cambiamenti che allargando lo sguardo, uscendo dall'ormai insufficiente dimensione nazionale, significano mutamenti climatici e minacce crescenti all'ambiente, uso distorto di risorse primarie e dissipazione di fonti energetiche, grandi spostamenti migratori non efficacemente controllati, squilibri tanto inaccettabili quanto pericolosi tra Nord e Sud del mondo, guerre "preventive" e conflitti dimenticati, un terrorismo internazionale che ha fatto irruzione nelle nostre vite come una minaccia costante e terribilmente concreta.
Il tutto mentre l'economia globale e le nuove tecnologie fanno entrare il mondo, ogni giorno, nelle case di ciascuno di noi. Un mondo, ha scritto un vostro celebre connazionale, Marc Augé, che finisce per essere percepito "come un'unica città dove tutto comunica, anche i pericoli".
E' un tempo di insicurezza, il nostro. Un'insicurezza radicata e complessa, perché è data da un'insieme di precarietà sociale e assenza di garanzie nell'immediato, e da una incertezza esistenziale che diventa pessimismo e sfiducia se si guarda al futuro. Succede così che anche lo sviluppo tecnologico più che come opportunità venga visto come una minaccia, e che le scoperte scientifiche o i cambiamenti del costume sociale siano vissuti con timore, come una messa a repentaglio di identità e di stili di vita consolidati.
Sappiamo bene come risponde la destra, la nuova destra, a questa fondamentale domanda di sicurezza. Risponde con l'egoismo sociale, con la chiusura particolaristica, con l'allarme e l'esortazione a innalzare muri contro tutto ciò che non si conosce, che potrebbe comportare un pericolo e che per questo deve restare estraneo. E' una risposta sbagliata e dannosa, ma è una risposta. E noi non possiamo sottovalutarla, perché comunque dietro di essa c'è un apparato di idee e di valori, che possiamo non condividere, ma che è evidentemente in grado di attrarre consensi. Anche tra chi avrebbe motivi di ordine economico e sociale per stare da quest'altra parte.
Il fatto è che i vecchi schemi non reggono più, che gli strumenti di un tempo non sono più adeguati. Lo sbaglio più grave che oggi noi potremmo fare è quello di star fermi. E' uno sbaglio verso il quale non siamo affatto immuni. L'Europa è andata tanto più a destra, in questi anni, quanto più la sinistra non è stata capace di cambiare ed è rimasta imprigionata in categorie che l'hanno fatta apparire conservatrice, ideologica e chiusa; quanto più la sinistra ha continuato a seguire la logica dei "blocchi sociali", della sola difesa di tutele acquisite senza un impegno altrettanto grande per garantire diritti fondamentali a tanti nuovi soggetti, i giovani per primi, che ne sono privi.
Eppure se c'è una cosa che nel corso della storia ha fatto la grandezza della sinistra, è stata proprio questa: la capacità di cambiare, di comprendere i mutamenti e di spendere le proprie idee, la propria forza, contro chi voleva che tutto restasse come sempre, che nulla intaccasse gli antichi privilegi. O contro chi voleva che il fiume dei cambiamenti scorresse senza un alveo, prefigurando una "mano invisibile" capace di governare le cose, anche se questo poi significava, in realtà, indifferenza per la sorte dei più deboli.
Così come noi la conosciamo in Europa, questo ha fatto in duecento anni di vita la sinistra: quella liberale e repubblicana nel XIX secolo e poi, per restare nel campo del riformismo, quella socialista e socialdemocratica, che nel corso del Novecento ha migliorato le condizioni dell'uomo in rapporto alla produzione, ha diffuso possibilità di partecipazione prima inesistenti, ha determinato un grande cammino di emancipazione sia di natura politica, sia di natura economica.
Ieri, a spingere la sinistra a cambiare, a cercare nuove teorie e a darsi nuove forme organizzative fu l'industrializzazione di massa, fu l'inaccettabilità della fatica e dello sfruttamento di milioni di persone. Oggi, a richiedere alla sinistra e a tutte le forze di centrosinistra una ridefinizione di sé, sono fenomeni altrettanto grandi e forse ancora più complessi, che pongono problemi inediti e domande nuove.
Servono dunque risposte nuove. Per alcuni si tratterà di una profonda innovazione di programmi e strategie politiche, per altri di un radicale cambiamento, tale da investire identità e organizzazioni. In ogni caso di questo si tratta: di uscire dal recinto delle nostre sicurezze e delle convinzioni consolidate, trattenendo ciò che di buono e di attuale in esse c'è, e cercare, con apertura e con coraggio, ciò che di altrettanto valido c'è nelle idee degli altri, così come ciò che di fruttuoso ci può essere in tanti terreni ancora inesplorati.
Non è solo un obbligo, è una grande occasione. Staccarsi dalle ideologie del passato rende più liberi di pensare al futuro, più capaci di prendere posizioni nette e anche radicali su tante questioni che sfuggono alle categorie interpretative di un tempo.
Prendiamo ad esempio l'emergenza ambientale. Il clima che cambia non è più un rischio del futuro, una minaccia ipotetica per le generazioni che verranno. E' una realtà. Il clima cambia perché tagliamo le foreste pluviali, perché bruciamo troppo carbone e petrolio, perché scarichiamo nell'atmosfera terrestre troppa anidride carbonica, al ritmo impressionante di 70 milioni di tonnellate ogni ventiquattro ore. Il clima cambia e l'umanità, la sua parte più povera per prima, già paga prezzi pesanti per le temperature che si alzano, per i deserti che avanzano, per le siccità e le alluvioni che si fanno più intense e più violente. Sono milioni, soprattutto in Africa, i "profughi" del clima, senza più terra da coltivare, senza più raccolti di cui vivere.
Diciamo la verità: non è guardando indietro, alla nostra storia, che troveremo le risposte giuste, gli strumenti migliori per attrezzarci a una sfida che ha ormai un valore universale e un'urgenza estrema. Le nostre tradizioni politiche si sono formate in un tempo in cui l'ambiente non era un problema, in cui la concezione del progresso non si poneva il problema della sostenibilità, e le risorse erano considerate inesauribili e tranquillamente sfruttabili.
Ora sappiamo che non è così. Ce lo ha insegnato la cultura post- ideologica dell'ambientalismo. Eppure, proprio per dare un'idea della grandezza e della velocità dei cambiamenti, e insieme della non autosufficienza di ognuna delle culture della sinistra e del centrosinistra, l'ambientalismo stesso, per quanto più giovane delle altre grandi tradizioni riformiste, è chiamato oggi ad un profondo rinnovamento.
Mi è capitato, di recente, di usare l'espressione "ecologismo dei sì" per definire una cultura e un concreta politica che rifiuta la logica del no a tutto e si batte per "fare" anziché per "non fare". Un ecologismo che sostenga, anziché contrastare, l'energia eolica, l'alta velocità, i rigassificatori, le infrastrutture necessarie a ridurre i consumi di petrolio e carbone. Un ecologismo che facendosi politica generale contribuisca a fare del centrosinistra l'artefice di un cambiamento del modo di produrre e di consumare energia, seguendo ad esempio la via indicata dall'Unione Europea con i tre obiettivi "20%" da raggiungere entro il 2020: meno 20% sulle emissioni di anidride carbonica, meno 20% sui consumi energetici, più 20% almeno di fonti rinnovabili.
Di altrettanta innovazione e coraggio la sinistra ha bisogno sul terreno che da sempre è il suo, quello sociale. Non cambiano, non possono cambiare, i nostri compiti fondamentali: accompagnare alla crescita economica la coesione sociale, ridurre le disuguaglianze, creare le opportunità perché nella vita e nel lavoro vi siano le stesse chances per tutti, perché le capacità di ciascuno possano essere messe alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza. A cambiare è piuttosto il modo di rispondere a questi compiti, perché oggi c'è una gigantesco problema che va sotto il nome di precarietà e che riguarda soprattutto le giovani generazioni, e ci sono fondamentali domande di sicurezza da una parte, di libertà e fluidità sociale dall'altra, che tagliano trasversalmente strati e ceti che sono sempre più mobili, sempre meno definibili.
Un principio, allora, che dobbiamo fare compiutamente nostro, senza alcuna remora, è che senza crescita dell'economia e delle imprese ogni obiettivo di equità sociale e di creazione di opportunità si allontana.
Diciamolo con chiarezza: se l'economia va male, non ci può essere giustizia sociale.
E' la povertà, non la ricchezza, il nostro primo avversario. Più che sui privilegi dei garantiti, il nostro impegno deve concentrarsi sulle esigenze dei più deboli. In particolare dei bambini poveri e degli anziani non autosufficienti, che sono le prime vittime del mancato adeguamento dei sistemi di welfare alla nuova realtà della società e dell'economia.
E poi, ripeto, dobbiamo preoccuparci dei giovani costretti a vivere in modo precario, a vivere una vita part-time, con lavori saltuari, guadagnando poche centinaia di euro al mese e rimandando all'infinito la possibilità di avere una casa propria, di metter su famiglia, di avere dei figli. Nel mio Paese sono tre milioni i ragazzi che si trovano in questa situazione. E troppi sono i giovani che facendo lo stesso lavoro dei colleghi più anziani guadagnano il 35% in meno rispetto a loro. Una forbice che si allarga, considerando che negli anni Ottanta eravamo al 20% in meno. E così il 70% dei giovani italiani sotto i 30 anni è obbligato a vivere con i genitori, e colpisce ancora di più sapere che lo stesso accade per il 30% di coloro che hanno tra i 30 e i 34 anni. Dieci anni fa era il 20%.
I giovani, il loro futuro, la lotta alla precarietà. E' questo che deve stare più a cuore a tutte le forze del centrosinistra. La precarietà oggi si traduce in una condizione di "sfruttamento" paragonabile a quella in cui si trovavano un tempo gli operai delle grandi fabbriche. Davvero non vedo come la sinistra e gli stessi sindacati possano non avere come priorità l'affermazione dei loro diritti, la creazione di un efficace sistema di ammortizzatori sociali, di contrappesi sul piano della continuità previdenziale, della formazione nella transizione da un posto all'altro, della solidità delle indennità di disoccupazione.
Anche qui dobbiamo dirlo con chiarezza: ci sono interessi comuni e delle giovani generazioni che vengono prima degli interessi di parte o dei vantaggi di breve termine di chi peraltro già dispone di una buona quantità di garanzie.
Con altrettanta decisione dobbiamo togliere alle destre la bandiera della libertà. Era una vecchia e cattiva utopia quella che faceva dell'uguaglianza la nemica della libertà. Oggi, per noi, nella nostra idea di equità e di giustizia sociale, le due cose non possono che stare insieme. Libertà di tutti, e non di pochi. E uguali opportunità. Dobbiamo contrastare il meccanismo per cui gli individui che hanno acquistato superiorità in una sfera di produzione utilizzano tale superiorità per avanzare in tutte le altre sfere, e preoccuparci di mettere sempre più persone nella condizione di fare cose che inizialmente non erano in grado di fare, offrendo loro la possibilità di essere libere, di esercitare le loro libertà.
E insieme alla libertà, c'è un altro problema su cui il centrosinistra deve vincere definitivamente timidezze e conservatorismi, per evitare che ad impossessarsene continui ad essere la destra: è il tema della sicurezza, del modo di contrastare la criminalità e l'illegalità, di affrontare i complessi nodi che hanno a che fare con l'immigrazione e con le questioni legate alle identità culturali.
Possiamo credere che molto sia dovuto alle disuguaglianze e alla minore o maggiore capacità di apertura e di integrazione che dimostrano società ed istituzioni, e se lo crediamo abbiamo il dovere di fare tutto quanto è nelle nostre capacità per lavorare su questo piano, sul piano delle politiche sociali e dell'inclusione, che certo ha conseguenze decisive sul medio e lungo periodo. Mentre facciamo questo, però, non abbiamo alcun diritto di considerare ingiustificate o irrilevanti le preoccupazioni delle persone, e abbiamo anzi il dovere di offrire loro soluzioni immediate. Chi viola la legge, chi commette un reato, chi compie un crimine, un atto di terrorismo o una qualsiasi forma di violenza, deve avere la certezza che sarà trattato con assoluta fermezza, che dovrà rispondere delle sue azioni alla giustizia e che andrà incontro a una pena giusta e certa, quale che sia la sua nazionalità.
Nessuna remora su questo. Non solo perché è giusto, perché stiamo parlando della libertà delle persone, che non è tale, non è effettiva, quando si ha paura di uscire la sera, di fare una passeggiata in un parco o di mandare i propri bambini a giocare sotto casa. Nessuna remora perché il centrosinistra deve avere la convinzione di possedere le soluzioni migliori, in questo campo. Perché siamo noi, e non la destra, a sapere che integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza, possono vivere solo insieme.
Siamo noi ad avere la solidale consapevolezza che chi arriva nei nostri Paesi per scappare dalla fame e dalla guerra deve trovare accoglienza, opportunità e diritti. E proprio per questo, al tempo stesso, siamo noi, è un centrosinistra moderno e innovativo, a poter pretendere da tutti rispetto dei doveri e delle leggi che regolano le nostre comunità, distinguendo dalle persone oneste e più sfortunate chi invece viene qui per far del male agli altri. Nei confronti di costoro non c'è che la via della severità e delle giustizia.
E' tutto questo, è l'insieme delle nostre idee, della nostra politica di fronte ai cambiamenti dentro i quali siamo immersi, a definire più di ogni altra cosa la nostra identità.
E a questo proposito, per concludere, resto convinto che ciò di cui abbiamo bisogno a livello internazionale è un nuovo campo, dentro il quale possano vivere la straordinaria esperienza del socialismo europeo e la molteplicità delle culture democratiche che esistono nel mondo. Nessuno è chiamato a rinunciare alla sua storia o a rinnegare la sua identità. Tutti possiamo lavorare insieme, allargando le nostre frontiere ideali e aprendo nuovi orizzonti comuni, alla costruzione di ciò che già oggi è reale e che domani potrà essere ancora più forte e autorevole.
Non credo si possa pensare, per dirlo con chiarezza, ad una grande organizzazione mondiale delle forze di progresso che non racchiuda dentro di sé i democratici americani o il Partito del Congresso indiano e tante nuove forze che in Africa, in Asia e in Europa nascono dalle sfide del nuovo millennio. E' una grande casa internazionale dei democratici e dei socialisti, quella che dovremo costruire insieme. Anche così riusciremo ad affrontare i problemi che il secolo scorso ci ha lasciato irrisolti, a rispondere ai cambiamenti e alle novità del nostro tempo, a rendere più adeguata la nostra sfida in un mondo globale e sempre più interdipendente.
Senza perdere mai, e anzi rinnovandola e adattandola ai tempi, quell'ambizione e quella capacità di avere una visione che faceva dire ad Anatole France che "per compiere grandi cose non si deve solo agire, ma anche sognare. Non soltanto pianificare, ma anche credere".
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