23.07.2003
L’intervista domenicale concessa dal ministro dell’Economia e delle Finanze a
il Corriere della Sera non è la classica intervista estiva. Essa solleva,
infatti, una questione di primaria importanza: quella della collocazione
dell’Italia nei flussi di commercio internazionale, delle regole che governano
quei flussi e della protezione delle produzioni nazionali.
La globalizzazione e i processi di liberalizzazione stanno modificando
profondamente lo scenario degli scambi internazionali per i prodotti made in
Italy e, più in generale, per il sistema italiano di piccole e medie imprese.
Sono sempre più evidenti i limiti strutturali che riducono significativamente la
capacità competitiva tanto di singoli comparti quanto dell’intero sistema
produttivo.
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione si affermano con
difficoltà nel panorama italiano e la ricerca di una maggiore efficienza mette
in pericolo, in molti comparti, la modalità tutta italiana di organizzazione del
processo produttivo centrata sui distretti. I processi di delocalizzazione, se
non governati, spezzano infatti le filiere produttive e riducono in misura
considerevole la capacità competitiva dei sistemi locali di piccole e medie
imprese. Per le caratteristiche della sua specializzazione produttiva e della
configurazione del suo sistema imprenditoriale, l’economia italiana appare
inoltre particolarmente vulnerabile. È crescente la diffusione dei fenomeni di
contraffazione: si valuta, ad esempio, che la quota di merce contraffatta nel
commercio mondiale sia prossima all’8 per cento e che per oltre due terzi essa
provenga dal Sud-Est asiatico.
Tutto ciò, sottolinea il ministro dell’Economia, poco o nulla ha a che fare
con la questione del declino. «Un declino - osserva il ministro - non avviene in
pochi anni. Avviene in decenni… E quello che è successo in Italia è accaduto
troppo di colpo per essere catalogabile come declino».
Non è necessariamente così. Quello che accade oggi in Italia ed in Europa -
tanto la crescita a ritmi prossimi al 30 per cento delle nostre esportazioni
verso il mercato cinese quanto la crescita vicina al 50 per cento delle
importazioni cinesi verso l’Italia - è cominciato più di vent’anni fa. Nel corso
degli anni Ottanta la Cina si è dotata di codici penali e civili e delle
relative procedure, di una legge sul contenzioso amministrativo, di una legge
sulle joint venture, di una legge sui marchi e sui brevetti, di una legge
fallimentare. Negli anni Novanta è stata la volta del diritto amministrativo,
della disciplina dei titoli di credito, della legge sui diritti d’autore, del
diritto societario, tributario e bancario. In soli vent’anni, il sistema di
norme cinese è diventato ormai del tutto compatibile con quello dei Paesi
industrializzati. L’Italia, invece, aspetta da quarant’anni uno straccio di
riforma del diritto fallimentare e quella che il Guardasigilli sta apprestando
non ci farà fare alcun passo in avanti. E il nostro impianto amministrativo è
tuttora, nonostante tutto, incompatibile con i tempi e le logiche di una moderna
economia di mercato.
In Cina sono nate nel 1979 le «Zone economiche speciali» che hanno attirato
negli anni Ottanta e Novanta un terzo degli investimenti esteri mondiali.
L’Italia ha tentato qualche anno fa una operazione simile con i contratti d’area
sommergendoli sotto una spessa coltre di burocrazia tanto da renderli di una
imbarazzante inutilità . Oggi il Governo vara i contratti di localizzazione che
sembrano disegnati non per attrarre capitali esteri ma per risolvere le crisi
produttive nazionali.
Questo è il declino. Che poco o nulla ha a che fare con la legge 626 sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro o con l’articolo 18. Ma che ha molto a che fare
con la palese incapacità del Paese di percepire e di affrontare per tempo le
sfide che si trova a fronteggiare. Con la speranza disperata che spinge a
confondere i sintomi con la malattia e che porta a curare la febbre con la borsa
del ghiaccio (o, nel caso di specie, con i dazi).
Dicono gli storici che il primo sintomo del declino stia nella pervicace
ostinazione con cui le classi dirigenti di un Paese si rifiutano di vederlo. In
questo senso, l’intervista del ministro dell’Economia non è parte della
soluzione. È il problema.
Post scriptum: e l’opposizione? Su questi temi dov’è l’opposizione?
di Nicola Rossi
da www.unita.it
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