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Contro l’Amnesia (di Michele Sarfatti da www.unita.it)
25.09.2007
L’anno prossimo ricorreranno settanta anni dall’emanazione da parte del regime fascista delle leggi antiebraiche. Il 1938 fu infatti l’anno dell’introduzione ufficiale in Italia del razzismo e dell’antisemitismo di Stato; anche se non va dimenticato che si trattò del frutto di processi storici iniziati precedentemente e che norme razziste contro i «camiti» erano state emanate sin dal 1936 nel territorio metropolitano e soprattutto nelle colonie africane.

Terminata la seconda guerra mondiale, liberato il Paese, sconfitto il nazifascismo, per vari decenni gran parte della società italiana ignorò o fece finta di ignorare ciò che era avvenuto nel 1938 e nei sette anni seguenti. In effetti, uno dei modi utilizzati dalle comunità per affrontare i postumi di una persecuzione è appunto quello di comportarsi come se essa non sia avvenuta.

Così gli ebrei cacciati nel 1938 da scuola, dal lavoro, dall’esercito, dalla sala di lettura della biblioteca, dal circolo di canottaggio, dal sindacato dei merciai ambulanti, dalla borsa, dal corpo dei vigili del fuoco, appresero nel 1945 che non erano stati perseguitati, che Mussolini «aveva dovuto» varare le leggi ma non le aveva fatte applicare, che ne aveva disposto l’applicazione ma che il «popolo italiano» non gli aveva obbedito, e via sminuendo, relativizzando o negando tout court. Gli studi sul tema pubblicati nei primi decenni postbellici non furono sufficienti a demolire il muro di deformazione permeante in molti ambiti.

La situazione ha iniziato a mutare nel corso degli anni Ottanta. Nel 1988 (a oltre quaranta anni dalla fine del fascismo) si arrivò finalmente alla pubblicazione su La Rassegna Mensile di Israel (cioè su una rivista connessa al mondo delle vittime) del corpus integrale delle leggi antiebraiche, mettendo così automaticamente in luce la loro ampiezza e aprendo la strada alla correzione degli errori che la storiografia pioneristica aveva inserito nella ricostruzione della vicenda. Prese così il via una nuova fase (quella tuttora in corso) caratterizzata da continue e progressive scoperte (forse dovremmo dire «riscoperte») documentarie e quindi dal progredire delle conoscenze e delle interpretazioni storiche. Nel 2000 infine le leggi antiebraiche sono state elencate tra gli eventi che la Repubblica Italiana ricorda nel “Giorno della Memoria”, il 27 gennaio. Alcune notizie di questa estate 2007 sembrano indicare che l’anno prossimo la società italiana darà particolare attenzione e rilievo al settantennale del 1938. Per limitare lo sguardo al solo mondo delle istituzioni e alle notizie reperibili sul web, si può ricordare che l’annuale concorso studentesco del Ministero della Pubblica Istruzione riguarderà elaborati su tale argomento, che il presidente della Giunta Regionale Toscana ha collegato la prossima edizione del Meeting annuale di San Rossore al fatto che fu proprio in quel luogo che re Vittorio Emanuele III controfirmò le prime leggi persecutorie elaborate da Benito Mussolini, che un consigliere comunale di Fano ha già interpellato la propria Giunta sulle iniziative da assumere. A ciò stanno per aggiungersi le attività e le proposte degli enti culturali, a iniziare dall’imminente attivazione di un’apposita sezione del sito web del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Stante questa crescita di interesse, cosa è opportuno aspettarsi da essa? Sul piano negativo, va auspicato da un lato che non riprenda forza il riduzionismo (o il negazionismo) e dall’altro che non si sviluppi una sorta di commiserazione lacrimosa per un passato da richiamare alla mente solo per riarchiviarlo frettolosamente. Sul piano positivo, credo che il fine collettivo dovrebbe essere quello di mettere a fuoco il «cosa» e il «perché», senza perdere per la strada i tre «chi»: le vittime, i persecutori, gli altri. Il «cosa» è essenziale: è dai fatti che sempre occorre partire. Il «perché» vuol dire studiare processi, programmi, volontà, vuol dire comprendere perché «noi italiani» all’epoca facemmo ciò, vuol dire conoscere meglio «noi italiani», di ieri e di oggi. Il «chi» significa riportare le persone, qualsiasi sia stato il loro ruolo, al centro dei fatti, nella storia.

Per fare solo due esempi, sembrerebbero opportuni tanto studi di realtà tuttora poco note o inesplorate (come la rivista Geopolitica, sede elaborativa del «nuovo ordine» imperial-razzista), quanto realizzazioni di banche dati particolareggiate delle vittime (come l’anagrafe della vita scientifica pre e post-1938 dei docenti espulsi). Mentre si vorrebbe proprio non dover ancora assistere alla riproposizione reticente del pensiero e delle gesta di personaggi antisemiti come Julius Evola (nella Germania democratica - quella odierna - tali riproposizioni sono impedite da una salda consapevolezza del passato).

L’amnesia - chiamiamola così - nazionale dei primi decenni del dopoguerra, ha fatto sì che molti antisemiti (convinti od opportunisti) occupassero ruoli più o meno importanti nella società, e contribuissero anche in tale veste a propagare l’amnesia stessa. La crescita di interesse sociale per la legislazione antiebraica è andata di pari passo con la loro progressiva perdita di ruolo o di potere. È questo un ulteriore aspetto che merita di essere indagato, tenendosi accuratamente lontani tanto dalle colpevolizzazioni generalizzate quanto dalle assoluzioni basate sul fatto che tizio, pur avallando le leggi contro «gli» ebrei, aiutò «un» ebreo a lui particolarmente congeniale o raccomandato.

E tutto ciò ricordando sempre che gli ebrei italiani erano, appunto, italiani, e che anche per questo le leggi antiebraiche furono una ferita che l’Italia inferse a se stessa, prima ancora che a quel gruppo di cittadini.

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