27.09.2007
Qualche tempo fa ho visto un film, Tredici giorni, non
particolarmente brillante, infatti, ha avuto poco successo nelle
sale, ma altamente istruttivo da più punti di vista. Al centro della
narrazione stava il Presidente degli Stati Uniti d'America, John
Fitzgerald Kennedy, che doveva rispondere all'installazione a Cuba
di missili sovietici probabilmente dotati di testate nucleari. Il
Presidente aveva convocato nella famosa Sala Ovale della Casa Bianca
non più di una decina fra consiglieri, generali e ministri (fra i
quali, il fratello Robert, Ministro della Giustizia).
Non soltanto, il dibattito, come è confermato da tutti i resoconti,
era intenso e aspro, ma nessuno dei partecipanti mostrava alcun
timore reverenziale nei confronti del Presidente. Anzi, in più
occasioni il Presidente veniva criticato, ovviamente con la
proposizione di argomenti contrari alla sua posizione e con
motivazioni specifiche. Alla fine, toccò al Presidente prendere la
decisione, «chiamando» quello che poteva anche non essere un bluff
sovietico e Kruscev decise di ritirare i missili.
Qual'è la parte istruttiva del film Tredici giorni? In primo luogo
che i grandi leader non si circondano di «yes men», ma di
consiglieri la cui autorevolezza e la cui competenza permettono loro
di contraddire anche un Presidente degli Usa. In secondo luogo, che
il grande leader vuole essere contraddetto per impararne di più. Se
tutti gli dicessero «sì, hai ragione», le motivazioni di una
decisione e la sua validità non potrebbero essere saggiate. In terzo
luogo, che se una sede è decisionale, allora i partecipanti debbono
essere pochi. Al di sopra di una certa soglia, probabilmente dieci o
dodici partecipanti, la procedura decisionale diventa farraginosa,
confusa, poco produttiva. Anche il cosiddetto «inner Cabinet»
inglese, vero luogo decisionale, ha per l'appunto un basso numero di
partecipanti. Infine, la decisione è formulata e presa dal capo
dell'esecutivo.
Qualche lettore si chiederà dove va a parare questa narrazione che
non è soltanto una premessa. Anzitutto, intende essere una critica,
nient'affatto sommessa, ma esplicita, ai riti dell'attuale governo
italiano (i precedenti li ho criticati a tempo debito) celebrati in
incontri pletorici quasi che il coinvolgimento di tutti possa
portare a decisioni migliori o, quantomeno, disinneschi i dissensi.
No, le decisioni troppo negoziate non sono affatto migliori e,
quanto ai dissensi, quando la riunione non è neppure ancora
terminata, i dissenzienti hanno già trovato modo di rilasciare
dichiarazioni alle radio e, preferibilmente, con buona pace delle
serie parole del Presidente Napolitano, alle televisioni nel
tentativo, spesso coronato da successo, di comparire nei
telegiornali.
Naturalmente, conosco anche la replica alla mia critica. La
coalizione di governo è ampia, oh, yes, e composita. Bisogna tenere
conto di tutti i punti di vista. D'altronde, è lo stesso
schieramento sociale del centro-sinistra che si esprime in una
molteplicità di rappresentanti. Dulcis in fundo, se poi Prodi si
definisce «assistente sociale» della sua maggioranza, non c'è più
nulla da paragonare a processi decisionali anglosassoni, ma neppure,
per non andare troppo lontano, francesi. Si aggiunga che, per
coinvolgere un po' tutti, non soltanto ci sono all'incirca, poco più
poco meno, 35 mila candidati all'Assemblea Costituente del Partito
Democratico, ma l'Assemblea che, dunque, non potrà essere che molto
marginalmente una sede decisionale, se non per linee estremamente
semplificatorie, avrà duemilacinquecento componenti. Certamente, un
grande esperimento di massa, la cui qualità dovrebbe essere
freddamente valutata in seguito, e per fortuna che il segretario del
Partito democratico, se ottiene almeno il 50 per cento dei voti di
tutti coloro che si recheranno alle urne il 14 ottobre, sarà eletto
direttamente.
Il fatto è che la sinistra, al governo e nel paese, non riesce a
sfuggire alla tentazione di rappresentare la frammentazione (ma il
rispecchiamento non è mai rappresentanza) e non riesce ad approdare
a due lidi molto raccomandabili: la competizione e la decisione. Si
ha vera competizione quando tutti «corrono» senza reti di sicurezza,
ad esempio, non si fanno cooptare come capolista in liste bloccate,
dopo avere proposto e promesso «primarie sempre» e teorizzato
la «contendibilità » di tutte le cariche. Si ha competizione quando
chi perde esce, almeno per un giro, senza necessariamente, se
davvero fa politica per passione, uscire dal giro. Quanto alla
decisione, chi è a capo di un governo (o di un partito) ha l'onere e
l'onore di prendere le decisioni, certamente dopo avere ascoltato,
ma non necessariamente ceduto in maniera tale da produrre soltanto
decisioni di minimo comune denominatore.
La decisione guarda avanti.
È una sintesi proiettata nel futuro, ma, naturalmente, può essere
riformata a ragione veduta. Se, come il Ministro Bersani ha
dichiarato fin troppe volte, la politica ha una marcia in meno della
società (a mio parere, non sempre e non dappertutto, neppure nel
Nord!)) e nel distacco si manifestano e proliferano i germi
dell'antipolitica, allora è chiaro che vertici di governo, per di
più allargati, non sono mai uno strumento che aumenti la velocitÃ
della politica. Anzi, sembrano fatti apposta per confermare le
critiche politiche e antipolitiche. E quando la politica non è la
soluzione dei problemi di un paese, della sua spesso frammentata,
autoreferenziale e egoista società , diventa rapidamente un problema
per quella società e per le opportunità di costruire una buona
politica. Semplificare e rendere trasparente è possibile, a
cominciare dai vertici. Forse, adesso, è addirittura indispensabile.
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