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Invisibilità (di Paola Carini)
4.10.2007
“Nella decade tra il 1470 e il 1480 un gruppo di nativo-americani seguì la Corrente del Golfo dalle Americhe fino in Irlanda. Non si sa se provenissero dalla regione caraibica o dal Nord America. Non si sa se il loro viaggio fu intenzionale o se vennero sospinti verso est da una tempesta. Quel che si sa è che due o più americani, sicuramente un uomo e una donna, raggiunsero la baia di Galway, in Irlanda, e laggiù furono visti da Cristoforo Colombo ben prima del suo famoso viaggio del 1492”.

Con questa strabiliante introduzione Jack D. Forbes, Professore Emerito dell’Università di California a Davis, apre il suo più recente lavoro di ricerca demolendo con l’acribia dello storico uno dei cardini della Storia occidentale. Che Cristoforo Colombo non fosse stato il primo a scoprire il Nuovo Mondo era già emerso dall’evidenza dei viaggi vichinghi in Groenlandia, ma che addirittura fosse accaduto il contrario, cioè che popolazioni americane compirono la traversata oceanica ben prima dei vascelli di Colombo e, secondo Forbes, anche in tempi molto più antichi, sgretola in un colpo le fondamenta su cui si è costruita la storia delle Americhe. Con prove della sofisticata tecnologia marinara americana, della conoscenza di correnti e di venti, con la rivalutazione dei ritrovamenti di parti di imbarcazioni e altri oggetti non-europei in Europa, nonché con un cospicuo numero di documenti storici (europei) e di testimonianze di varie epoche, Forbes compone il mosaico della scoperta americana dell’Europa. Che fosse con canoe, piroghe, kayak o umiak, che fossero tupi-guaranì oppure inuit o qualche altro gruppo nordamericano, essi ebbero contatti con gli europei dell’epoca; in certe zone del Nord Europa frammenti di questi incontri sono rimasti nella memoria locale.

Viene da pensare cosa sarebbe successo se quei gruppi navigatori avessero avuto mire aggressive, se fossero tornati sulle coste europee in grandi numeri alla ricerca di fantomatiche terre, di ori, di fortune, di schiavi, di donne.
O se solo la Storia avesse tenuto in debito conto anche le note a margine, come quella di Colombo alla sua copia dell’”Historia rerum ubique gestarum” di Pio II – il quale peraltro già citava “indiani” spinti da tempeste sulle coste europee – in cui il genovese scrive di aver visto un uomo e una donna, due “superbe creature”, giungere da est su due “legni” nella baia di Galway, cioè su canoe ricavate da un unico tronco d’albero secondo una tecnica molto diffusa nell’America del Nord ma sconosciuta in Europa, allora i viaggi americani non sarebbero divenuti invisibili.
E i discendenti di quei navigatori non sarebbero abitanti effimeri di una nazione moderna che stenta ancora oggi a riconoscerne l’esistenza.

Da uno studio dell’ente indipendente americano Public Agenda emerge che la definizione “nativo-americani” o “indiani d’America” è più una categoria storica che una attribuzione di origini etniche, con tutto il carico di omissioni e distorsioni che la Storia degli ultimi cinquecento anni ha portato con sé. Questa ricerca, pur non avendo fini statistici, è stata condotta su sette gruppi di nativo-americani e cinque di non-nativi in varie parti degli Stati Uniti e ha messo in luce un dato ricorrente: nonostante la simpatia generale dei non-nativi nei confronti dei nativo-americani per il trattamento che hanno ricevuto, di cui hanno peraltro un’idea molto annacquata, molti di loro non credono che gli indiani esistano ancora; “c’erano nel passato, ma adesso non ci sono più”, dichiara esplicitamente uno degli intervistati. La Storia si è fermata al Generale Custer e a Little Big Horn, e con essa si è pietrificata la percezione dei nativo-americani. In quanto rappresentanti di un’etnia “evanescente”, come la retorica dell’epoca proclamava, si sono dispersi nelle nebbie del tempo, e ora, duecento anni dopo, agli occhi di tanti loro concittadini non possono che essere invisibili. Diverso è il caso del gruppo di intervistati che vivono in luoghi o in prossimità di luoghi abitati densamente da nativo-americani: essi percepiscono un trattamento preferenziale delle istituzioni nei confronti dei nativo-americani che inevitabilmente ne condiziona l’atteggiamento. Tutti, però, ignorando la devastazione della conquista – i milioni di vittime, le lingue e le culture quasi spazzate via, le frodi e le malversazioni che hanno sottratto milioni di acri di terra, l’inadempienza del governo federale e le altre numerose ingiustizie di cui si è parlato in questa rubrica – ignorano in ugual modo la vitalità delle culture sopravvissute, la tenacia di recuperare tradizioni, la forza e il coraggio di ritornare al cuore della propria identità magari andando a messa la domenica e poi partecipare subito dopo a riti antichi come fanno nei pueblo e in gran parte sono contrari ad ogni forma di risarcimento nei loro confronti.
Che un quarto dei nativo-americani viva sotto la soglia di povertà, il doppio rispetto alla media nazionale, che un terzo non abbia assicurazione medica nonostante l’assistenza sanitaria dovrebbe essere garantita e gratuita secondo i trattati sottoscritti dal governo federale, e che ognuno di loro abbia il doppio di probabilità di essere vittima di un crimine violento, sono realtà di cui i non-nativi non sono affatto a conoscenza e, cosa ancora più triste, quasi nessuno degli intervistati ha mai conosciuto o frequentato un nativo-americano né ha mai espresso l’intenzione di una qualsiasi forma di interrelazione.

Come più volte ricordato in questa rubrica, l’impatto di tali affermazioni sui nativo-americani è una ferita psicologica che ha radici e propagazioni profonde. Non vedere riconosciuti i propri diritti e la propria storia è doloroso, ma che gli altri non vedano la propria esistenza, quindi la propria umanità, è cosa ancora più atroce e affatto nuova nella storia del genere umano. Negli Stati Uniti di oggi, essa si camuffa sapientemente nell’indifferenza apatica, nell’intolleranza egoista, nello stereotipo benevolo tanto quanto nella inconsapevolezza della loro presenza. Ma ignorare che coloro che vivevano già nel continente ora chiamato America hanno continuato a viverci e ci vivono tuttora, magari ad un isolato di distanza, non è un’innocente leggerezza e di certo non provoca solo il danno altrui. Come descrive mirabilmente la scrittrice Linda Hogan nella sua autobiografia, anche così si perde la propria umanità “un brandello alla volta”. “Quando giriamo le spalle a ciò che richiede il nostro intervento, quando rimaniamo zitti nel momento in cui le parole sarebbe invece necessarie, quando sottraiamo al mondo ciò che non può essere sostituito – una pianta, una animale, un amore”, continua la Hogan, perdiamo un pezzetto della nostra anima, e la possibilità di vivere in un mondo migliore se solo si volesse vedere.

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