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Cosa chiede il popolo del Pd
18.10.2007
Nando Dalla Chiesa da l'Unità, 18 ottobre 2007
E vabbé, la società civile non sarà meglio della società politica. Ma ci sono momenti in cui il popolo del centrosinistra mostra di essere meglio dei suoi rappresentanti. Anzi, vogliamo dirla tutta? Questi momenti si stanno moltiplicando. E sono tutti importanti, decisivi.

Le primarie di domenica sono l'ultimo eclatante episodio di una lunga catena di dimostrazioni sul campo. Ricordate le domande irridenti? Ma quale partecipazione può suscitare il Partito democratico? La fusione fredda, la somma degli apparati, l'antipolitica, la casta...

E poi il profeta Grillo, il disincanto, non c'è più Berlusconi a mobilitare «contro», un progetto esangue: davvero pensate che si muoverà di casa qualche cittadino normale? E poi le previsioni al ribasso: ottocentomila, un milione, oltre un milione, certo non potrà essere come con Prodi. Tutto è saltato, tutto è stato sbaragliato, dai numeri alle teorie, dai pessimismi cosmici ai cinismi inconcludenti. Milioni di persone che vanno a votare il segretario di un partito politico al quale la grande maggioranza di loro probabilmente non si iscriverà mai. Non poteva esserci battesimo migliore. Anche se bisogna dire la verità. I vertici del ceto politico, complessivamente intesi, ce l'avevano messa tutta all'inizio per produrre un risultato opposto: un'assemblea costituente faraonica e impotente a dibattere e decidere in proprio (rimasta, per ora); liste bloccate (rimaste); dieci e poi cinque euro per ogni elettore, specie di tassa sulla democrazia (portata a un euro); iscrizione automatica e quasi a occhi chiusi al nuovo partito (rimossa); un solo candidato (diventati per fortuna cinque, di cui tre di prestigio e peso nazionali).

Ecco, il popolo del centrosinistra ha detto che dove si può scegliere, dove votare ha un senso, lui si muove; alla faccia della disinformazione sui seggi o delle inevitabili bizzarrie logistiche. Si muove. E partecipa. E legittima. Anche se non è del tutto soddisfatto: né del governo, né delle liste bloccate e nemmeno della credibilità della politica. In questo senso i tre milioni e mezzo sono un fatto stupendo, ma anche un monito.

Sono la prova d'appello che l'elettorato ulivista - e non solo - ha concesso ai suoi rappresentanti. Facendo impallidire i trecentomila del Vaffa-day (gran parte dei quali sono comunque andati ai seggi), i votanti di domenica hanno demolito i luoghi comuni che si stavano formando sui giornali e nei salotti televisivi; hanno, una volta di più, dato forza alla politica del centrosinistra, quasi esercitando una grandiosa azione di supplenza nei confronti dei propri rappresentanti. Che la fiducia dovrebbero infonderla e invece seminano pessimismo. Che dovrebbero dimostrare a ogni passo di credere anima e corpo in quello che fanno e danno spesso la sensazione di parlare parole fatte di ghiaccio. Che dovrebbero tutelare gelosamente il bene comune (in primis: il governo faticosamente conquistato) e sembrano a volte godere nel metterlo a repentaglio.

Avrà le sue lentezze, o i suoi umori viscerali, o le sue incrostazioni ideologiche, il popolo del centrosinistra. Ma bisogna ammettere che è un gran popolo. Ho girato per i seggi della periferia milanese tutta la domenica. Non un'invettiva contro Berlusconi (tranne sulla bocca di un bambino evidentemente «socializzato» in casa), non un dito medio levato al cielo, e soprattutto -certo, proprio così- non un tentativo di broglio. Sì, la propaganda per Veltroni giungeva in certi casi soffusamente dentro i seggi, ma gli stessi scrutatori, diciamo così, ex-diessini erano i primi ad annullare le schede veltroniane quando la volontà dell'elettore (voleva indicare la prima o la seconda lista?) non era sufficientemente chiara. Ho visto i segni di una scuola di democrazia, di correttezza e legalità, che fa pensare che quasi nessuno in questo popolo accetterebbe mai di mutare un'espressione di voto per favorire la propria idea.

Bene. Che rapporto c'è tra questo popolo e i bigliettini per l'elezione del presidente del Senato (Marini Franco, Franco Marini, Marini...) o i personalismi che rischiano di mandare all'aria un'esperienza di governo quando dietro l'angolo c'è solo e soltanto Berlusconi? Che rapporto c'è con il fastidio per la partecipazione dei cittadini nei momenti delle scelte cruciali o delle candidature elettorali? Che rapporto con l'ansia perenne di risistemare ovunque personale politico riciclato? Nessuno, si direbbe. È dunque arrivato il momento di mettere a fuoco la domanda di politica che arriva dalla parte più attiva del nostro elettorato. Di rileggerla nelle sue manifestazioni, dal referendum del '93 all'Ulivo, a piazza San Giovanni e al Circo Massimo, dalle primarie di Prodi (il governo) a quelle di Veltroni (il partito democratico). Di cogliere le domande di unità e di identità, l'intreccio di protesta e di fiducia. Di rivedere il lungo film di questa traversata.

Per esempio (parlo per me) di ricordare il gennaio del 2002 e le riunioni dei gruppi parlamentari del mio partito in cui molti sostenevano che l'Ulivo fosse archeologia politica; per poi, neanche un mese dopo, vedere le seicentomila persone arrivate a Roma da tutta Italia che sventolavano le bandiere dell'Ulivo scandendo «unità, unità». Di capire che nessuna nuova avventura elettorale (liste civiche, nuove liste di protesta) avrà successo con un popolo che legge i processi politici, che capisce le debolezze dei suoi governi ma non li vuole buttare a mare. Un popolo che risponde alla convocazione della piazza come «società civile» ma che nelle occasioni decisive sa vestirsi da «società politica» diffusa. E che, proprio perché crede nella politica, vuole una politica credibile. Pulita, aperta, intelligente, appassionata. Che la segue e la soppesa anche quando sembra che non ne voglia sapere nulla.

Perciò da oggi c'è una cosa che la politica deve assolutamente evitare: ignorare la domanda di partecipazione e di cambiamento che è arrivata domenica con la fiducia - forte o cauta che sia - nel nuovo partito. Continuare insomma come niente fosse, come se l'ondata partecipativa fosse solo servita a consacrare Walter Veltroni, anziché a schiaffeggiare l'immagine della palude, della politica come luogo stagnante di accordi e di auto-investiture.

Tutti i voti hanno uguale dignità, ma se prendiamo, per esempio, il cuore di Milano, il successo della lista Bindi (tra il 25 e il 30 per cento nella cerchia dei Navigli) e quello della lista veltroniana più slegata dalla logica degli apparati rappresentano bene quell'opinione pubblica riformista più informata e più autonoma che ha voluto inviare un messaggio chiaro. In linea con le firme per il referendum, con la denuncia della casta, con gli umori della piazza di Grillo, con le inquietudini civili, anche se stavolta in forma di progetto politico: più attenzione alle ragioni della società (dai professionisti agli ultimi), meno autoreferenzialità di ceto politico.

Illudersi di potere esorcizzare il messaggio dicendo che questo è stato il voto della borghesia movimentista e salottiera sarebbe un micidiale autogol, sarebbe come rifiutare la prova d'appello che è venuta da un popolo generoso e comprensivo. La «rivoluzione d'ottobre», per riprendere il felicissimo titolo di questo giornale, non dà l'assalto al Palazzo. Chiede solo di non essere presa in giro.

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