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Il mondo litiga, l'Europa tace (di G.G. Migone da www.unita.it) |
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26.10.2007
Esiste un'insufficiente consapevolezza, a Bruxelles come nelle altre
capitali europee, di ciò che l'Europa non solo deve ma può fare, per
evitare che nubi sempre più numerose e oscure si trasformino in una
tempesta di cui è difficile prevedere le dimensioni e, soprattutto,
la fine. Gli apprendisti stregoni che occupano tuttora le principali
stanze del potere di Washington non sanno come, forse non vogliono,
far rientrare nelle loro provette tutti gli spiriti maligni che
hanno evocato - dalla Polonia alla Cina, passando per il Golfo
Persico e Mosca - né la stagione elettorale si presta ad un così
arduo esercizio, in cui lo stesso Dipartimento di Stato sembra
tardivamente impegnato.
Come disse Tip O'Neill, non dimenticato presidente della Camera dei
Rappresentanti, «All politics is local»: tutte le scelte, anche
quelle geograficamente più remote, devono fare i conti con le
reazioni degli elettori nelle località più remote dell'America
profonda. In una stagione elettorale, come quella attuale - siamo ad
un anno dalle elezioni presidenziali - tutto diventa possibile, in
positivo e in negativo. Sono egregi e necessari gli sforzi
diplomatici europei, come quelli in atto per rallentare le dinamiche
di un intervento militare in Iran, rafforzare la componente civile
di quello in Afghanistan, trovare una soluzione politica condivisa
in Libano, evitare un intervento turco nel Kurdistan iracheno,
incoraggiare l'apertura nei confronti di Mosca sullo scudo stellare
(pur sapendo che Putin sta giocando la carta della riesumazione del
conflitto est-ovest), tentare di evitare una Conferenza sul Medio
Oriente che si risolva in una guerra senza frontiere ad Hamas,
continuare nello sforzo di non appiattirsi sulla posizione di
Washington nella trattativa commerciale con la Cina (anche se il
blairiano Mandelstam si sta muovendo precisamente in quella
direzione).
Si tratta di una nobile, anche necessaria, rincorsa di un'agenda,
una scala di priorità , di volta in volta decisa e modificata a
piacimento da Washington. Nobile e necessaria, ma non realistica, se
rimane limitata entro i confini della diplomazia professionale. Essa
può sortire qualche effetto solo se si interseca con la partita di
politica interna che per un anno intero determinerà ogni scelta di
politica estera della maggiore potenza mondiale. Non si tratta
di «interferire», facendo il tifo per i democratici contro i
repubblicani. Nelle scelte strategiche di politica estera una
candidata sensibilissima agli umori variabili del Paese (e
all'antica esigenza degli esponenti del suo partito di dimostrarsi
macho almeno quanto i rivali repubblicani) come Hillary Clinton
potrebbe non dimostrarsi tanto diversa da George W. Bush. Piaccia o
no, sono questi umori variabili dell'elettorato americano a
determinare in buona parte quale piega prenderanno gli eventi
mondiali nei prossimi mesi e, forse, nei prossimi anni. Siamo
costretti a rinviare ad altra data la nostra capacità , in quanto
europei, di non subire passivamente l'agenda imposta da Washington.
Ciò si verificherà nel momento in cui esisterà un'entità politica
europea, in grado di agire nell'interesse e secondo i valori del
quasi mezzo miliardo di persone che noi siamo, che non può essere
regalata da Washington. Nel frattempo possiamo soltanto chiederci in
quale modo gli sforzi diplomatici europei possano eventualmente (la
formulazione è volutamente iperprudente) incrociarsi con la dinamica
elettorale americana che condizionerà imminenti scelte di politica
estera, di guerra e di pace, di una potenza per ora senza rivali,
tuttavia sempre meno egemone, in quanto sempre meno capace di agire
nell'interesse dell'insieme di cui fa parte (il pianeta) e in
conformità con i propri valori.
Quale sia questa dinamica, questo condizionamento sulle future
scelte di politica estera di Washington, quale dilemma presenti
all'elettorato non è difficile prevedere. L'Amministrazione in
carica è oggi in difficoltà su tutti i fronti. I suoi indici di
gradimento non raggiungono un terzo dell'elettorato. Pesa
soprattutto un giudizio ormai universalmente accettato, salvo dal
presidente in carica e dai suoi più diretti collaboratori,
sull'esito della guerra in Iraq e, di riflesso, sulla guerra al
terrorismo che egli così ha definito e condotto. Però, attenzione,
si tratta di un giudizio, soprattutto lo stato d'animo che ne
deriva, non ancora consolidato, che può essere fortemente manipolato
con parole e atti di chi detiene ancora formidabili leve, quelle
della presidenza e dei centri di potere che finora l'hanno
sostenuta. È ragionevole pensare che l'esito di quella guerra, le
difficoltà riscontrate altrove, la stessa aggressività iraniana che
ne costituisce una conseguenza diretta, consiglierebbero un rifiuto
di altre avventure militari, una maggiore attenzione verso altri
scenari e bisogni interni, una diversa politica economica. Su ciò
scommettono un Congresso a maggioranza democratica (dimostratosi
finora poco efficace), i candidati presidenziali democratici, mentre
il Dipartimento di Stato tenta di adeguarvisi, nei limiti in cui gli
è consentito dalla Casa Bianca.
Tuttavia, sarebbe un errore nascondersi che esiste un'altra
possibilità , un altro modo di affrontare l'appuntamento elettorale
(che qualcuno potrebbe addirittura confondere con l'appuntamento con
la storia) dell'Amministrazione in carica; una possibilità che
sembra, purtroppo, profilarsi nell'impostazione offerta, da
Wasghinton e non soltanto da Washington, ai rapporti con l'Iran che stanno diventando,
non a caso e con l'evidente complicità del presidente iraniano in
carica, il punto focale della politica mondiale e della stessa
campagna elettorale americana. Una possibilità che trova conforto in
un'antica legge della politica, esasperata dalla mercurialitÃ
dell'opinione interna statunitense, secondo cui chiodo scaccia
chiodo: una crisi dall'esito incerto, o decisamente negativo, come
quella tuttora in atto in Iraq, viene cancellata da un'altra crisi
che, per dimensioni e qualità , esalti il ruolo militare del
comandante in capo, previa adeguata escalation di trattative senza
esito, sanzioni radicalizzanti ma inadeguate a sortire un risultato
a quello del conflitto armato. Con tutte le conseguenze che ne
derivano in un mondo in rapida trasformazione, con il difficilissimo
compito di sopportare tensioni inedite di natura culturale e
sociale. È una partita ancora aperta, che condiziona esiti
elettorali ma ne travalica gli schieramenti, perché esistono modelli
alternativi, alla portata della stessa Casa Bianca, come quelli
libico e nordcoreano, coerenti con l'obiettivo sacrosanto della non
proliferazione. Il quale, tuttavia, nel medio e lungo periodo, esige
il rispetto della prima parte del trattato (che prevede misure di
disarmo da parte dei detentori dell'arma nucleare, come a suo tempo
osservò il non dimenticato senatore William Fulbright).
In che modo è possibile incidere su queste dinamiche in atto, a
cominciare da quelle scatenate dalla competizione elettorale in
pieno corso di svolgimento negli Stati Uniti? Occorre, innanzitutto,
la piena consapevolezza delle responsabilità che incombono sugli
alleati europei di Washington. Per quanto indeboliti dalle divisioni
tra loro, accentuate dal riorientamento, duraturo o meno, della
diplomazia francese, essi sono gli unici a poter comunicare
credibilmente per comunanza di alcuni valori con settori
significativi dell'opinione pubblica americana. C'è un solo modo per
usare questa risorsa: affiancare ai giusti accorgimenti diplomatici
una trasparente comunicazione sui dati di fondo della crisi decisiva
in questa fase. Affermare con chiarezza i costi politici, in ogni
scacchiere del globo ma soprattutto per la sicurezza strategica di
Israele, di un'avventura militare contro l'Iran. In alternativa,
proporre con forza a Washington una trattativa espliciti con Teheran
su tutto il contenzioso, non solo quello nucleare, rinunciando a
pregiudiziali che, invece, devono costituire uno degli esiti della
trattativa medesima (la rinuncia volontaria da parte dell'Iran
all'arricchimento dell'uranio che il trattato non esige, ma non al
nucleare civile). Rifiutare con fermezza sanzioni fuori dall'Onu,
sicuramente inefficaci se non universali, in sede di Unione Europea
o altrove (altro che entità numerica della rappresentanza di singoli
stati in sede di Parlamento europeo!). Considerare visite di
statisti europei a Washington, come quelle imminenti dei presidenti
Napolitano e Prodi, come occasioni preziose di comunicazione e
spiegazione di simili propositi, in nome di valori comuni oggi più
che mai bisognosi di conferma nei fatti.
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