24.07.2003
Accordo del 23 luglio 1993: una sfida ancora attuale di Guglielmo Epifani. Se
si vuole ragionare sull’accordo del 23 luglio del 1993, occorre vederlo nel suo
complesso e inserirlo nel contesto dell’Italia di quegli anni.
L’accordo del 23 luglio non è soltanto un sistema di regole per la
contrattazione. Era una proposta di politica economica e di politica
industriale, una costruzione per molti versi inediti della politica dei redditi,
un sistema di regole e procedure contrattuali. Ma, insieme, anche un accordo
sulla rappresentanza sindacale.
La forza e l’unicità di quell’accordo risiedono esattamente nell’insieme di
questi elementi.
In campo di politica economica, ad esempio, l’accordo definiva l’esigenza di
operare per lo sviluppo, la ricerca e l’innovazione, verso una politica di
infrastrutture materiali e immateriali che riecheggiavano il Libro Bianco di
Delors. Per quanto riguardava la politica dei redditi, esso definiva meccanismi
di controllo e verifica di prezzi e tariffe particolarmente innovativi. Infine
il sistema contrattuale doveva garantire la difesa dei redditi reali, senza la
presenza della scala mobile, e la funzione, non ripetitiva, dei due livelli di
contrattazione.
L’importanza storica di quell’accordo sta, quindi, nella forza di quegli
obiettivi e nel fatto che costituirono al tempo stesso una strada per portare il
Paese fuori dalla grave crisi di quel tempo, assicurando però anche un forte
principio di equità ed una equilibrata distribuzione del reddito.
La grande svalutazione della lira del 1992 fece il resto: per tre anni
l’industria italiana crebbe, crebbero le esportazioni, l’inflazione si abbassò e
il sistema contrattuale funzionò senza particolari problemi.
Passati dieci anni, oggi possiamo dire come, sotto il profilo della politica
dei redditi, le condizioni economiche generali e i contenuti di quell’accordo
abbiano consentito la difesa del potere d’acquisto dei salari e delle
retribuzioni, ma non la loro crescita, visto che è accertato che i 4/5 della
ricchezza prodotta in questi anni sono andati in direzione di profitti e tasse.
Cosa resta e cosa va cambiato di quell’accordo. La grave crisi e il rischio
di declino industriale e produttivo richiedono che l’idea – già contenuta
nell’accordo di dieci anni fa – di investimenti in ricerca, innovazione e
formazione venga ripresa, potenziata e attuata. Di tutti gli obiettivi indicati
dieci anni fa, questo è sicuramente quello più disatteso: l’Italia di oggi
investe meno in questi settori rispetto all’inizio degli anni 90. L’accordo
recentemente firmato con Confindustria riprende e indica correttamente i
contenuti di politica industriale per sostenere lo sviluppo del Paese, che in
caso contrario sarà destinato - come oramai tutti affermano - ad una progressiva
emarginazione nel commercio mondiale.
Così come ci sarebbe bisogno di una politica dei redditi, ma non se ne vedono
le condizioni nella politica del governo: non ci sono controlli su prezzi e
tariffe, mentre è evidente che la nostra inflazione viaggia su una media più
alta di quella europea e, con la moneta unica, questo svantaggia le imprese del
nostro Paese.
Infine bisognerà fare una verifica del modello contrattuale, senza
stravolgimenti di cui non si avverte alcuna necessità , migliorando soprattutto
la parte di qualità , tenendo conto dei modelli produttivi, della necessità di
ampliare la rappresentanza a nuovi lavori e figure professionali e rendere più
forti le tutele.
L’idea di ridurre il peso del contratto nazionale, per rendere più forte il
secondo livello di contrattazione, per ridurre costi e diritti, è priva di
senso, dato che la dinamica retributiva è stata sostanzialmente moderata.
Occorrerebbero invece una maggiore redistribuzione della produttività che si
genera, una politica salariale che accresca il valore medio delle retribuzioni,
un lavoro innovativo sulle professionalità , una politica di intervento e di
governo degli orari, la capacità di accrescere la sicurezza sul lavoro, una
riduzione dei livelli di precarietà , la capacità di estendere norme e diritti
con caratteristiche più generali, un governo delle filiere produttive che le
aziende tendono a separare, una contrattazione permanente del rapporto fra
lavoro e formazione.
In questo contesto può essere utile una qualificazione del secondo livello di
contrattazione, come livello più vicino ai processi di trasformazione produttiva
e alle caratteristiche delle prestazioni di lavoro e di determinazione della
produttività . In sostanza, si può immaginare un rafforzamento del secondo
livello di contrattazione, per recuperare rappresentanza laddove si determinano
davvero i cambiamenti, ma non come modo per ridurre qualità e livelli delle
tutele previste nel contratto nazionale.
Così come andrebbe ripensato il tema degli accorpamenti contrattuali, per
grandi filiere omogenee, riducendo il numero sproporzionato dei contratti
collettivi nazionali di lavoro esistenti (ad oggi oltre 300). Questo lavoro fu
avviato con Confindustria, ma fu fatto cadere rapidamente.
Per questo, se si vuole guardare al futuro, bisogna cogliere il carattere
alto della sfida di quell’accordo di dieci anni fa, al quale è legato -
ovviamente - il ruolo e il protagonismo che il sindacato ha avuto in una fase
così difficile e drammatica della storia e della vita del Paese
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