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L'Europa scivola verso il disastro con l'Iran (di T. Garton As
2.11.2007
la Repubblica, 2 novembre 2007

L'Europa scivola verso il disastro con l'Iran
TIMOTHY GARTON ASH

L'EUROPA sta scivolando verso un altro disastro in politica estera, di portata vasta quanto l'Iraq. Questo disastro è chiamato Iran, e si presenta in due varianti. La prima è che gli Stati Uniti decidano di bombardare il Paese mediorientale prima che George W. Bush lasci la Casa Bianca, nel gennaio 2009. La seconda è che l'Iran, pochi anni più tardi, arrivi ad avere la bomba atomica. La maggior parte degli europei sono ipersensibili nei confronti del primo pericolo e ciechi nei confronti del secondo. Dovremmo agire immediatamente e con decisione per scongiurarli entrambi, e invece ci aggiriamo come sonnambuli sull'orlo di un precipizio.

Non serve che esponga le innumerevoli insidie di un'azione militare, né, spero, c'è bisogno che sottolinei che Teheran e Washington non possono essere messe, moralmente, sullo stesso piano. Perché, però, siamo indifferenti di fronte all'altro pericolo? Un quarto di secolo fa, milioni di persone invasero le strade di Bonn, Londra e Roma e per protestare contro il dispiegamento di missili nucleari americani, (e perfino contro il nucleare civile: Atomkraft? Nein, Danke si urlava in Germania, «Nucleare? No, grazie» si faceva eco in Italia). Adesso un regime islamico fissiparo, instabile e sempre più militarizzato, il cui presidente ha invocato la cancellazione di Israele dalle mappe, sta procedendo deliberatamente verso il punto in cui potrebbe, se lo volesse, compiere in tempi brevi l'ultimo passo verso la bomba atomica. Una delle probabili conseguenze sarebbe una corsa a dotarsi della bomba atomica in Medio Oriente, con gli Stati più potenti dell'islam sunnita, come l'Arabia Saudita, che potrebbero decidere che anche loro ne hanno bisogno.

Dove sono gli intellettuali tedeschi, inglesi o italiani, gli attivisti della pace? Perché non lanciano l'allarme? Dove sono finite tutte le manifestazioni? La proliferazione nucleare accresce il rischio di un effettivo ricorso all'arma atomica, più che negli ultimi anni della Guerra Fredda, anche se con prospettive meno apocalittiche. Potreste obbiettare: «Sì, ma Israele, il Pakistan e l'India già ce l'hanno, la bomba». È vero, non è un bene e l'Occidente adotta palesemente un altro metro di misura nei confronti dell'India e di Israele, ma questo non è un argomento valido per lasciare che anche altri si procurino il loro bravo strumento di strage di massa. Quattro torti non fanno una ragione.

L'Europa, se non vuole tradire i suoi valori e i suoi interessi, dovrà quindi impegnarsi per evitare entrambi questi rischi. (È corretto quanto futile far notare che gli Stati Uniti, nell'ultimo decennio, hanno scialacquato numerose opportunità per impegnarsi in modo costruttivo. La situazione è quella che è, e da qui dobbiamo partire.) Da diversi anni ormai, Germania, Francia, Gran Bretagna e il rappresentante per la politica estera dell'Ue, Javier Solana, hanno preso in mano i negoziati sul nucleare con l'Iran, coadiuvati e spalleggiati dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica, e appoggiati (più o meno) da Stati Uniti, Russia e Cina. Due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu hanno intensificato la pressione sull'Iran. All'orizzonte, non si intravede nessun passo avanti significativo. L'Iran continua a costruire le sue centrifughe, mentre gli Stati Uniti, che stanno perdendo la pazienza, hanno appena imposto, unilateralmente, un'altra infornata di sanzioni punitive, indirizzate in particolare alla Guardia rivoluzionaria.

Due scadenze elettorali contribuiscono a rendere urgente la questione: le presidenziali americane, di cui tutti sappiamo, e le elezioni in Iran, per il Parlamento il marzo prossimo e per la carica di presidente nel 2009. Due elezioni che influenzeranno, anche se non decideranno, la rotta che seguirà il Paese. Tutto quello che fa l'Europa dev'essere pensato in funzione dell'impatto che potrà avere sulla complessa dinamica politico-sociale iraniana, e anche su quella americana. Paralizzata dalle divergenze interne e dalla mancanza di meccanismi adeguati per una politica estera efficace, però, l'Unione Europea non fa praticamente niente. Una lumaca ubriaca si muoverebbe più velocemente.

Che cosa dovremmo fare? Dovremmo proporre, in stretta consultazione con gli Stati Uniti e, nei limiti del possibile, con Russia e Cina, un ambizioso approccio a doppio binario. Per farlo, servono una grossa carota e un grosso bastone. La grossa carota dovrebbe essere l'offerta di negoziati senza alcuna pregiudiziale su qualsiasi cosa di cui la Repubblica islamica voglia discutere, dall'interpretazione dei libri sacri (oggetto di una dotta missiva del presidente Ahmadinejad al presidente Bush) a una conferenza regionale sull'Iraq, ad accordi per l'energia nucleare, il commercio, gli investimenti e una piena normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti. L'obbiettivo, in questo caso, è far sedere Washington e Teheran allo stesso tavolo, per trattare in modo diretto, senza intermediari. Questo significa tirar fuori le due controparti dal vicolo cieco in cui sono andate a ficcarsi: gli Stati Uniti dicono che non tratteranno con l'Iran se Teheran prima non sospenderà l'arricchimento dell'uranio e l'Iran dice che non lo sospenderà se prima Washington non accetterà di trattare. Per raggiungere questo risultato, serviranno compromessi, blandizie e simulazione in gran quantità, ma d'altronde, questa è la diplomazia.

Serviranno anche pressioni più efficaci. Se le pressioni non devono essere militari, non possono essere altro che economiche. Gli Stati Uniti hanno fatto ormai tutti i passi possibili dal punto di vista economico, compreso spaventare le banche europee che finanziano scambi e investimenti con l'Iran: ma le loro armi sono spuntate, perché le relazioni commerciali con Teheran sono quasi inesistenti.

Per l'Europa è diverso. Secondo la Commissione europea, il 27,8 per cento degli scambi commerciali dell'Iran, lo scorso anno, sono avvenuti con l'Unione Europea, che si colloca pertanto come primo partner commerciale del Paese mediorientale. Un terzo delle importazioni iraniane proviene dall'Europa. Tra i Paesi membri, il primo partner commerciale è l'Italia, mentre la Germania rimane di gran lunga il principale esportatore europeo verso la Repubblica islamica.

Molte di queste esportazioni sono supportate da garanzie dei crediti all'esportazione, che tanta più importanza assumono nel momento in cui le banche private si tirano indietro. La Germania, negli ultimi anni, ha imposto limiti alla concessione di nuove garanzie dei crediti all'esportazione verso l'Iran, dopo un boom delle esportazioni, sostenuto appunto da queste garanzie, tra il 2000 e il 2005, ma la cifra complessiva delle garanzie attuali rimane relativamente stabile e molto consistente. La Gran Bretagna è esposta attualmente per circa 600 milioni di dollari (415 milioni di euro), mentre l'alto funzionario del Ministero dell'economia tedesco responsabile delle esportazioni verso l'Iran mi dice che l'impegno complessivo della Germania è dieci volte superiore a quella cifra, intorno ai 5 miliardi di euro. Anche l'Italia ha una grossa somma in garanzie alle esportazioni. Questo è il grande bastone che l'Europa può agitare, continuando al contempo a usare toni conciliatori nelle trattative.

Negli eleganti corridoi dei palazzi del potere del Vecchio Continente, come potrete immaginare, questo argomento è oggetto di discussione. La Gran Bretagna e (questa è la grande novità) la Francia sono pronte a bloccare la concessione di nuove garanzie dei crediti all'esportazione, o nell'ambito di un'azione coordinata dell'Unione Europea (Bruxelles ha già adottato sanzioni più rigorose di quelle prescritte dall'ultima risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu) o nell'ambito di una terza risoluzione del Consiglio di sicurezza. L'Italia, la Germania e altri Paesi europei oppongono resistenza. Decisiva, come spessissimo succede, è la Germania, la potenza cardine del continente. Bloccare le garanzie dei crediti all'esportazione produrrebbe effetti pesanti, colpendo in particolare le aziende tedesche e italiane, e causando ripercussioni occupazionali in Paesi che cercano a tutti i costi di non perdere posti di lavoro. Andrebbe in senso contrario, inoltre, a tutta la tradizione di politica estera della Repubblica federale di Germania, che ha sempre considerato gli scambi internazionali come un bene in sé, quasi una vacca sacra.

Altre serie argomentazioni possono essere avanzate contro l'adozione di sanzioni simili. Cina e Russia non sarebbero probabilmente ben liete di andare a colmare il vuoto che si aprirebbe (in parte, già lo stanno facendo)? Questi provvedimenti andrebbero a colpire gli obbiettivi giusti, all'interno delle classi dirigenti iraniane, o quelli sbagliati? Non spingerebbero, come farebbe un'azione militare, la cittadinanza a schierarsi a sostegno del regime? Sono dubbi che condivido. Ma quali alternative migliori abbiamo a disposizione? Continuare a blaterare fino a quando gli americani non sganceranno le bombe o gli iraniani si procureranno la bomba? Sarebbe una strada tipicamente europea, ma non certo una buona strada.

È venuto il momento di fare scelte difficili. Per essere credibile a Teheran, per essere credibile a Washington e - last ma assolutamente not least - per essere credibile nei confronti dei propri cittadini, l'Europa dev'essere pronta a far seguire alle parole i fatti.

traduzione di Fabio Galimberti
www.timothygartonash.com

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