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Carte Celesti (di Paola Carini)
8.11.2007
Otto bambini stavano giocando, sette sorelle e un fratello. All’improvviso il bambino ammutolì; iniziò a tremare, poi a correre a quattro zampe. Le dita delle mani diventarono zampe e il corpo si ricoprì di pelo. Là dove c’era stato un bambino ora c’era un orso. Le sorelle ne furono terrorizzate, e corsero via con l’orso che le inseguiva. Giunsero al ceppo di un grosso albero e l’albero parlò. Disse loro di salire sopra e, quando lo fecero, esso iniziò a crescere sempre più alto. L’orso le raggiunse per ucciderle, ma loro erano appena al di là della sua presa. In piedi poggiato all’albero, l’orso gli girava intorno graffiandone la corteccia. Le sette sorelle furono trasportate in cielo e diventarono le stelle del Gran Carro dell’Orsa Maggiore.

N. Scott Momaday narra così la leggenda della sua gente, i kiowa, riguardo la nascita di queste stelle. Il ceppo mitico è Devil’s Tower, conformazione geologica nel Wyoming oggi meta ambita di appassionati free-climbers. Le scanalature della roccia, larghe fino a qualche metro, sono i segni indelebili delle unghie dell’orso. Da quel momento, prosegue Momaday, nel cielo notturno i kiowa ebbero qualcuno dei loro.

Nell’America autoctona l’osservazione delle stelle è sempre stata parte integrante della vita e dello sviluppo delle culture. Le conoscenze astronomiche delle popolazioni del Centro e del Sud America sono note grazie ai ritrovamenti archeologici e alle testimonianze scritte. I pochi libri maya sopravvissuti agli incendi dei conquistadores spagnoli testimoniano, tra le altre cose, l’osservazione di Venere: essi sapevano che appariva come stella del mattino per 236 giorni, poi spariva per 90 giorni e diventava stella della sera per altri 250. Gli aztechi assorbirono molte delle conoscenze maya e, come loro, registravano gli avvenimenti meteorologici e celesti negli “almanacchi”.
Similmente nel nord del continente, a Chaco Canyon, gli anasazi costruivano una kiva le cui finestre si allineano perfettamente con il sole durante il solstizio d’estate; le pietre disposte in circolo sui monti Bighorn del Montana, comunemente e impropriamente chiamate “ruota della medicina”, indicano il sorgere delle stelle Aldebaran, o Alpha Tauri, dell’ammasso stellare delle Iadi nella costellazione del Toro, e Rigel, la supergigante del gruppo di Orione. I seneca seguivano attentamente l’evoluzione delle Pleiadi per piantare il granturco, mentre i pawnee costruivano le loro abitazioni di terra col tetto a cupola in modo da poter osservare il cielo attraverso i fori di aerazione. Come nel resto del mondo, le stelle, il sole e la luna e i loro spostamenti nel cosmo acquisirono un significato ulteriore rispetto a quello astronomico, e l’osservazione astrale venne incorporata nei miti. Anche tra gli apsáalooke, il cui nome fu erroneamente tradotto con “crow”, le stelle sono parte del corpus mitologico come fu nell’antico Egitto e nell’antica Grecia, in Cina e tra i babilonesi, ma la valenza religiosa che essi gli attribuiscono è cosa diversa.
Custodita ancora oggi dagli anziani, essa è stata recentemente raccolta dall’etnoastronomo Timothy McCleary. Una piccola parte è stata resa pubblica, mentre il cuore è rimasto, giustamente, patrimonio esclusivo della comunità crow della riserva nel Montana.

“Una volta”, racconta nella prefazione del libro di McCleary il preside del Little Big Horn College, “la nazione crow possedeva forza, bellezza, e un forte senso di identità… Ora le ricchezze dei crow sono sfruttate dai bianchi e la maggior parte di noi vive in povertà”, ed è difficile conservare i costumi e le conoscenze antiche quando si soffre la fame. Eppure il Crow Astronomy Project, cioè la paziente e accurata indagine di McCleary, ha avuto il grande merito di rivitalizzare sia una parte di conoscenze antichissime che rischiavano di estinguersi, sia la lingua con cui esse sono state trasmesse. Osservato senza l’aiuto di astrolabi o sestanti, per secoli il cielo stellato dei crow è stato sia un calendario che scandiva il passare del tempo, sia la mappa che illustrava la cosmogonia e la cosmologia, cioè i racconti della genesi, le credenze e la filosofia di quel popolo.

Gli anziani crow consultati da McCleary seguono attentamente l’apparizione progressiva delle stelle. Se il tempo è clemente il cielo si fa luminoso di stelle, e dalla loro posizione essi deducono l’ora con notevole precisione. Al tramonto, quando la luce si affiochisce, è tempo di baappaaiké, Venere, stella della sera e del mattino. Poco prima dell’alba appare Sirio, ihkaléaxe, poi, lentamente, sorge il Vecchio, cioè il sole, e tutto si risveglia. Similmente, per capire l’alternarsi delle stagioni i crow seguono l’andamento di stelle specifiche: la primavera coincide con l’apparizione dell’”Orso che sta sopra”, la costellazione dell’emisfero settentrionale che la tradizione occidentale ha identificato con Ercole, semidio e figlio di Giove che sembra essere nell’atto di menare un fendente. La Corona Boreale, “Il Luogo dell’Accampamento”, indica l’estate, mentre l’autunno inoltrato è segnalato dall’”Oca che sta sopra”, ossia il Cigno, una costellazione nell’angolo settentrionale della via Lattea che per molti popoli ha sembianze di uccello. La “Mano che sta sopra”, cioè la cintura di Orione, Rigel, Cursa (Beta Eridani), a ovest di Rigel, segna l’inizio e la fine dell’inverno. Le due stelle circumpolari importanti per i crow, quelle stelle che per la loro posizione sembrano non tramontare mai, sono il Gran Carro dell’Orsa Maggiore e la Donnola. Dal Gran Carro deducono l’orario in maniera pressoché esatta, mentre dalla Donnola – che essi vedono formata da Cefeo (secondo la mitologia greca marito di Cassiopea e padre di Andromeda), Cassiopea (regina d’Etiopia), dal Drago (costellazione che serpeggia e per questo così classificata dai romani e greci) e da una parte di Perseo (costellazione al centro della Via Lattea dal nome del figlio di Zeus e della mortale Danae) − il momento stagionale. Ma la Donnola ha anche altre valenze: “muovendosi intorno alla Stella Polare… era sempre osservata da mio padre nel periodo invernale”, ricorda un’anziana, “…[lui] usciva e la ascoltava”. “La Donnola è uno spirito, un essere sacro, e gli avrebbe rivelato cosa sarebbe successo”. Similmente Sirio, la più splendente della costellazione del Cane Maggiore e la più luminosa tra tutte le stelle, sorge nel momento più sacro, quando il Creatore si dice sia più vicino agli esseri umani favorendo le visioni o i sogni rivelatori.
Per i crow, infatti, le stelle sono soprattutto figlie del Creatore. In quanto tali, sono attraversate dall’energia vitale che permea ogni cosa, “l’immenso mistero” di cui si parla nell’articolo di questa rubrica intitolato “Kitchi Manitou”. Parte di quell’equilibrio tra le forze intelligibili e imponderabili del mondo, le stelle non sono divinità “venerate” nell’accezione più classica del termine, quanto entità che possiedono uno spirito. In questo senso sono mappe vere e al contempo metaforiche, sideree ma anche spirituali; sono carte celesti che guidano i crow nel cammino della vita.
Per leggere le stelle in questi termini non bastano le conoscenze e le tradizioni consolidate dalle generazioni o l’abilità dell’osservazione: la vastità del cielo è lì a ricordare ai crow la grandezza della creazione e, nello stesso tempo, i limiti umani. Giunta l’alba, occorre anzitutto ringraziare il Creatore per ciò che si è potuto comprendere e per ciò che inevitabilmente si è rivelato al di là della propria comprensione.

Furono le visioni propiziate dalle stelle a guidare i crow nella loro ancestrale migrazione verso le terre del Wyoming e del Montana; furono le stelle ad apparire alla base dei monti Bighorn, laddove il Creatore aveva detto, come scintillanti semi di tabacco. E furono ancora una volta le stelle ad indicare il centro del loro mondo, la montagna chiamata Awaxaawakússawishe. Oggi sono di nuovo le stelle, ihké aléwahkuua, “le stelle che noi conosciamo”, ad indicare alle giovani generazioni di apsáalooke le antiche vie celesti, punti fermi in un mondo in rivolgimento.
“Le stelle luccicano. Le stelle che noi conosciamo. Per questo rendiamo grazie. Aho, aho”.

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