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Grazia, dalla parte delle vittime
26.07.2003

Nell'elenco non ci sono. Non ho aggiunto la mia firma a quella delle centinaia di parlamentari che chiedono la grazia per Adriano Sofri. Benché anch'io sia a favore della grazia per Adriano Sofri. E vorrei provare a spiegare il mio imbarazzo, visto che almeno due motivi su tre non sono personali ma investono questioni rilevanti di etica pubblica, di responsabilità politica, di senso della storia.

Dirò subito per onestà qual è il motivo che chiamerò (impropriamente) personale. Sono molto legato affettivamente e moralmente alla famiglia Calabresi. Che ho conosciuto circa quindici anni dopo il delitto, quando Mario, il figlio maggiore del commissario, iniziò a frequentare timidamente le iniziative del circolo "Società civile" a Milano. Che ho seguito con rispetto nella lunga e difficile ricerca della verità. Dalla quale ho sentito raccontare fatti ed episodi della propria storia da fare accapponare la pelle (e da far provare sensi di colpa struggenti a un sessantottino qualunque come il sottoscritto). E che ho imparato a stimare nel tempo come una delle famiglie esemplari di questo Paese, in cui il senso civico non abbonda ma quando c'è, come per una legge del contrappasso, tocca vette di austera preziosità. Ho visto la sua sofferenza, la sua fermezza, la sua serenità; e poi il suo discreto sottrarsi alle pressioni e alle lusinghe, a volte sfacciate, per ottenere una dichiarazione, un segnale che indicassero il via libera per la grazia. E per questo non mi sono mai accodato alle raccolte di firme, alle impetrazioni in favore di Adriano Sofri. Verso il quale, sempre restando al piano personale, sono pure legato da un' antica ragione di gratitudine, che può sottovalutare solo chi non sappia che cosa voglia dire -nei momenti difficili, non nelle commemorazioni- per un familiare di una vittima della mafia potere parlare, non avere "il sasso in bocca". Era il giorno di avvio del maxiprocesso di Palermo nell'86. Sul "Giornale", per capire il clima, uscì un editoriale nel quale, perentoriamente, si invitavano "gli orfani" a tacere. Sofri, che allora curava la cultura per un bel quotidiano di breve vita, "Reporter", diretto da Enrico Deaglio, mi chiese di scrivere due pagine di impressioni in libertà su quella prima giornata. Lo fece per scelta sua, poiché non ci eravamo mai conosciuti prima. Ci vedemmo anche dopo le accuse contro lui, Bompressi e Pietrostefani e cercai sempre di tenere in equilibrio (almeno nella mia misura personale) il ricordo di quell'aiuto e l'affetto per la famiglia Calabresi, al di là delle ragioni che ciascuno mise poi in campo nell'infinito processo.

Qui entra in gioco la seconda ragione di imbarazzo. Che ho sviluppato dentro di me durante la scorsa legislatura. Adriano Sofri ha amici ed estimatori a destra e a sinistra. Anzitutto perché gli ex di Lotta continua, come si sa, si distribuiscono equamente tra l' opposizione e la corte di Silvio Berlusconi (il quale, notoriamente, odia il passato "comunista" solo di chi non ha messo la sua livrea). In secondo luogo ma più in generale perché il suo valore intellettuale e la sua densa cultura critica gli procurano una comprensibile audience trasversale. E' stato in ragione di questo che, al di là e forse contro il suo volere, egli si è trovato infilato nella seconda metà degli anni novanta in quello che personalmente ho chiamato "il trenino dell'impunità", vera, più intima spiegazione della devastante politica condotta sulla giustizia ai tempi dell'Ulivo. Un trenino a più vagoni, che sferragliò anche nella Bicamerale. Su uno i corrotti dei partiti e di Tangentopoli, su un secondo -con una propria autonomia-la Berlusconi band, su un terzo i mafiosi e i loro complici, su un quarto i secessionisti con licenza di insulto, su un quinto i terroristi, su un sesto (totalmente eccentrico rispetto alla compagnia e in assoluta solitudine) Adriano Sofri. Grazie alla comunanza di intenzioni dei diversi sponsor dei singoli vagoni nacque, a volte ben palpabile a volte felpata, una mostruosa (ma politicissima, anche se mai dichiarata) alleanza per rendere tutto il sistema comunque più "generoso", o come si diceva "più garantista": si trattasse di una legge per incidere sui processi, di una autorizzazione a procedere, di una amnistia o di una grazia da chiedere. Ovviamente vinsero solo i vagoni forti. Sofri non ne porta colpa, come non porta colpa della spregiudicatezza con cui in sede europea recentemente (oh, la politica...) Cohn Bendit si è avventurato in elogi di Berlusconi sperando di facilitare per l'ex leader rivoluzionario italiano la fatidica grazia. Epperò... Epperò a me questo trenino, che porta ognuno a capire un po' (per carità, solo un po') le ragioni dell'altro, questo trenino riaffiorato in parte nelle parole di Castelli, proprio non piace. Non mi piace nemmeno nella sua versione ristretta: nell'idea di "pareggiare" le leggi della vergogna con questa grazia, sorta di generoso gesto del Principe (a gioia anche dei suoi cortigiani) dopo avere instaurato il suo personale Stato dell'impunità. Sento odore di intruglio politico e morale. E nella trasversalità delle firme avverto un gran bisogno di "redenzione", di certificare la sincerità del proprio garantismo da parte di chi ha umiliato il parlamento piegandolo alle necessità private proprie o del proprio capo.

Ed ecco infine il terzo motivo dell'imbarazzo. Le firme garibaldine. La levità, la facilità con cui esse vengono apposte da coloro che militano a sinistra e soprattutto che hanno militato nella nuova sinistra nata nel sessantotto. Diciamolo chiaro. Qui, di nuovo, Sofri non c'entra niente. E nemmeno la sua innocenza o colpevolezza. Ma l'aria che colgo è quella della rimozione di un tratto di storia, nonostante le formali parole di rispetto per la famiglia Calabresi. Si firma come per dire che è finita, che tutti potremo essere più leggeri perché Sofri (sperabilmente) non sarà più in carcere. Che egli (sperabilmente) non pagherà più per un clima che moralmente fu responsabilità di tanti o di tutti. Ho cioè imbarazzo a vedere firmare non tanto una richiesta di grazia quanto una rimozione del passato. Forse bisognerebbe (tutti i firmatari, non Sofri) vedere Gemma Calabresi, ragazza di ventiquattro anni incinta del terzo figlio, che, impazzita dal dolore, arriva all'obitorio in mezzo ai fischi e agli insulti dei giovani rivoluzionari. Vedere il figlio Mario che da bimbo sogna di avere in regalo la scala più alta del mondo per raggiungere in cielo il padre. Vedere più di quindici anni dopo la famiglia Calabresi in tribunale ancora dileggiata da un po' di rivoluzionari cresciuti e divenuti giornalisti od opinionisti. Questo e altro occorrerebbe rivedere, senza l'alibi -ancora invocato in tante discussioni private (e solo in quelle)- delle violenze dello Stato e della società di allora. Occorrerebbe guardarsi dentro tutti insieme, in ciò che tutti sappiamo e in ciò che non tutti sappiamo. Oserei dire: bisognerebbe non liberarsi del fantasma di Sofri in carcere grazie a una firma ma con quella firma assumerlo collettivamente, al di là dei singoli fatti ai quali ciascuno ha o non ha partecipato.

Allora la richiesta di grazia, anziché far parte di un carnevale del diritto difficile da accettare, diventerebbe gesto fraterno per un uomo che da lunghi anni scrive di pace e di vita, che si è assoggettato alla sua pena, che non ha bisogno di essere rieducato ma che tanti potrebbe educare; diventa sofferto fatto di civiltà, di conciliazione con il diritto e gli affetti colpiti. Sta a noi far sì che assuma questo significato. E chissà che perfino il ministro Castelli non possa capirlo.

di Nando dalla Chiesa

(l'Unità 23 luglio 2003) - www.unita.it

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