6.12.2007
Sono tornati i vecchi tempi della politica italiana quando le crisi
di governo venivano annunciate in sede extraparlamentare e poi, con
calma, registrate in Parlamento.
Fa poca differenza che, questa volta, il messaggio provenga dalla
più alta carica della Camera dei Deputati e sia ammantata di un
ragionamento come sempre articolato, ma non necessariamente
condivisibile poiché alquanto ideologico, sul ruolo della sinistra
oggi, in Italia e in Europa.
Il messaggio lanciato da Bertinotti, che si
dichiara «intellettualmente» già «oltre l'Unione»,
ma «politicamente» ancora no, impone una riflessione sia sul futuro
del governo che sul ruolo e sui compiti del Partito Democratico.
Bertinotti rimanda la resa dei conti a gennaio: una verifica,
naturalmente, programmatica; forse, un rimpasto; meno probabilmente,
uno snellimento del governo Prodi; addirittura, una crisi in piena
regola. Personalmente, credo che le verifiche sulla stato di
attuazione di un programma a suo tempo concordato anche da e con
Rifondazione Comunista possano costituire strumenti utili per
valutare quanto ha fatto un governo e quanto è ancora possibile
fare, aggiungendo nuovi progetti all'agenda. Tutto questo, però,
diventa più difficile e, alla fine, sostanzialmente, impraticabile,
se una delle componenti importanti della coalizione di governo,
decide di operare in una prospettiva diversa, ovvero in direzione
del momento più favorevole per il suo distacco.
In questa lunga transizione politico-istituzionale, Rifondazione ha
costantemente vissuto (e prosperato) tra una preferenza per
caratterizzarsi come opposizione che chiede di più, il
famoso "oltre" (non so, quindi, se
scrivere "radicale", "antagonista", "alternativa") e una necessità :
quella di sostenere selettivamente e, dal maggio 2006, di
partecipare in prima persona all'attività di governo. Nella pratica
non ha mai risolto la contraddizione; nel pensiero l'ha sempre
esaltata. Eppure, dovrebbe essere chiaro che, anche se è vero che,
ma bisognerebbe dimostrarlo, il governo Prodi potrebbe/dovrebbe fare
di più, è esclusivamente da posizioni di governo che si affrontano
con un minimo di possibilità di successo i temi che lo stesso
Bertinotti enfatizza, vale a dire i salari e il precariato.
Incidentalmente, un discorso molto simile vale per le confederazioni
sindacali che, nelle loro critiche al governo, dimenticano che
qualsiasi politica che intenda rilanciare lo sviluppo, ampliare le
basi occupazionali, migliorare i salari, si gioverebbe del loro
impegno a differire alcune rivendicazioni e a partecipare, lasciando
da parte malposte concezioni di autonomia, attivamente ai processi
di cambiamento innescati dall'Unione.
Se i nodi del governo Prodi, del disagio di Rifondazione, delle
rivendicazioni dei sindacati, vengono al pettine adesso dipende da
due fenomeni. Il primo è che ci sono notevoli movimenti/smottamenti
nel centro dell'Unione, dove si collocano non soltanto il
mobilissimo Mastella, ma anche l'inquieto Dini e quattro senatori
che fanno a lui riferimento. Rifondazione intuisce che l'asse del
governo rischia di scivolare verso il centro. Naturalmente,
sottovaluta che il suo disimpegno, per il momento "intellettuale"
ma, in seguito, inevitabilmente, "politico", darebbe una forte
accelerazione all'eventuale scivolamento verso il centro. Il secondo
fenomeno che potrebbe avere creato disagio nei Rifondatori non è
costituito soltanto dalla formazione del PD, partito che dichiara un
po' troppo ad alta voce la sua vocazione maggioritaria, ma dalla
sensazione che Veltroni voglia favorire questa vocazione con una
legge elettorale tagliata, nella misura del possibile, sui panni del
PD (e del Popolo delle Libertà ). Tuttavia, Rifondazione sa che a
perdere di più dalla riforma di cui si parla sarebbero i "nanetti" e
che, tutto sommato, Rifondazione rimarrebbe in termini di seggi
grosso modo com'è oggi, ma acquisterebbe forse un peso politico
maggiore. Il suo peso politico potrebbe essere ancora più
consistente se la riforma elettorale approdasse al sistema tedesco
che non la obbligherebbe a nessuna alleanza preventiva, ma le
consentirebbe di drenare voti dai piccoli e, a determinate
condizioni, di diventare l'alleato privilegiato del PD (se Veltroni
guardasse a sinistra dove dovrebbe anche incontrare i sindacati
finora un po' troppo trascurati).
Con queste considerazioni in mente, Bertinotti, il cui ruolo
istituzionale dovrebbe pure comportare una qualche presa di distanza
dalla politica di governo e di opposizione, anche di quella del suo
partito, ha deciso di ricollocarsi nel cuore del dibattito politico.
Tuttavia, finisce per dare un contributo che non è né rilevante alla
soluzione dei problemi che il governo deve affrontare né positivo
per qualsiasi riflessione che si apra a sinistra. È un contributo
di "schieramento" che rischia sostanzialmente di affossare il
governo dell'Unione senza necessariamente fare crescere quella
sinistra che, magari, esiste nella strategia intellettuale di
Bertinotti, ma che non ha e non potrà avere nessun successo se,
unitamente ai sindacati, non riuscirà a chiarire i passaggi
attraverso i quali tradursi in una politica di progresso.
Dall'opposizione si lucra, forse, qualche consenso; di sicuro,
nonostante leggende comuniste troppo spesso ripetute nel passato, al
massimo, si esercitano poteri di veto, ma non si riesce a riformare
un bel niente.
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