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Intervista a Bruno Trentin. Oggi la sfida si chiama formazione
26.07.2003

Quell’intesa di dieci anni fa, nel luglio 1993, un po’ il pilastro della concertazione italiana, ha rappresentato per Bruno Trentin, ma non solo per lui, una specie di rivalsa. L’anno precedente, infatti, lo stesso dirigente sindacale, allora segretario generale della Cgil, aveva siglato, per dare subito dopo le dimissioni, un accordo considerato monco, accompagnato da acuti dissapori in casa Cgil. L’intesa del 1992, sotto il governo di Giuliano Amato, cancellava la scala mobile, salvava il Paese dal disastro finanziario, come molti avevano osservato, ma non aveva le caratteristiche del patto sociale, lasciava vuoti enormi sul possibile nuovo sistema contrattuale. L’intesa successiva, nel 1993, sotto l’egida di Carlo Azeglio Ciampi, riempiva quei vuoti e delineava una strategia complessiva, in gran parte ancora da sfruttare.

Che cosa è rimasto di quell’intesa che continua a far parlare di sé, anche nei tanti convegni celebrativi?

«È rimasto un sistema di relazioni industriali di cui da tempo Confindustria cerca di liberarsi. È difficile immaginarne la fine, visto che non esiste alcun progetto alternativo, se non la legge della giungla, invocata dai vari decreti governativi sul mercato del lavoro e dalle posizioni confindustriali».

Anche a sinistra, però, qualcuno chiede la sepoltura di quell’accordo…

«Starei attento a non cadere in un vecchio riflesso condizionato, presente in una parte della sinistra. Di fronte alla riluttanza dell’avversario a praticare certe regole, si ritiene molto radicale la scelta di distruggere quelle regole in anticipo. La situazione generale dimostra ancora di più e non di meno che c’è bisogno di un sistema di relazioni industriali, come quello stabilito nel 1993. Il fatto che siano rimasti bloccati per due anni i contratti del pubblico impiego è la dimostrazione che allora bisognava abolire questi contratti o che, invece, questi contratti sono ancora uno strumento ingombrante, ma ingombrante solo per la destra e per la Confindustria?»

C’è chi teorizza che, soprattutto sul piano salariale, le procedure firmate nel 1993 finiscono col burocratizzare l’iniziativa sindacale, erodendo il salario rispetto all’inflazione…

«Nel medio periodo c’è stato un aumento del salario reale, senza calcolare l’incidenza della contrattazione articolata. Io sono sempre stato molto preoccupato di una possibile centralizzazione contrattuale, come quella tentata nel 1984 con il governo Craxi. Allora davvero si delineò un disegno del genere. Non passò perché Craxi vi rinunciò. Nel 1993 c’è stata, invece, un’ipotesi che ridefiniva le regole della contrattazione nazionale e riproponeva la contrattazione nei luoghi di lavoro, ufficializzava la creazione di rappresentanze sindacali in tutti i luoghi di lavoro».

L’osservazione che si fa è che la contrattazione articolata riguarda solo una ristretta minoranza del mondo del lavoro. È così?

«Nell’accordo del 1993 si parla anche di contrattazione territoriale. Tale tipo di contrattazione esiste, del resto, come tradizione, in alcuni settori: nel tessile, nella ceramica, in alcune zone come Carpi. Per non parlare dei contratti a livello territoriale con l’artigianato. È presente, nell’accordo del 1993, una necessità e una potenzialità che bisogna saper utilizzare, ad esempio su una materia fondamentale come quella della formazione. È chiaro che solo la contrattazione territoriale può dare dei risultati efficaci. Siamo di fronte, ancora una volta, ad una debolezza del sindacato. Non è colpa dell’accordo».

Questo vale anche come obiezione a chi, come Pierre Carniti, accusa di aver burocratizzato l’iniziativa sindacale, facendo venir meno il ruolo positivo del conflitto?

«Le cause sono nel non aver sostenuto le vere riforme che si possono applicare all’accordo del 1993. Esse riguardano i contenuti del contratto collettivo. Le politiche degli orari e del tempo, ad esempio, essendo impraticabili a livello generale, dovrebbero diventare materia della contrattazione decentrata, d’azienda e di territorio. Oggi su questo c’è la paralisi. Se c’è una riforma da fare è quella di assegnare alla contrattazione decentrata materie come l’orario e la formazione e su queste impiantare effettivamente un’iniziativa rivendicativa. Io penso che la formazione nell’intero arco della vita sia il primo impegno per un sindacato degno di questo nome».

Nessun addio all’accordo del ’93 dunque?

«Scegliere noi la legge della giungla mi sembra una linea assolutamente suicida. Mi ricorda Enrico Toti, quando getta la stampella in faccia al nemico. Un atto disperato».

Oggi, in ogni caso, accordi del genere di concertazione appaiono irripetibili.

«Fino a quando esiste un governo come quello che abbiamo è difficile ipotizzare qualcosa del genere. Infatti questo governo è stato il primo a dichiarare che la concertazione era morta. Non c’è davvero la volontà di arrivare ad un rilancio di un’esperienza come quella del 1993».

Per il sindacato, però, sarebbe necessario un rapporto anche con questo governo.

«Certamente. Oggi, purtroppo, siamo di fronte ad una caricatura della concertazione. Prevalgono logiche opposte a quelle del 1993. Il governo informa e poi decide, per non parlare di quando decide senza nemmeno consultare. Come è stato tentato di fare per quanto riguarda le pensioni. Anche sul mercato del lavoro ci sarebbe bisogno di un confronto politico a cento ottanta gradi. L’operazione punta ad un rapporto di lavoro individuale e precario. Una linea che non ha nulla a che vedere, contrariamente a quanto proclamato, con gli orientamenti di politica sociale dell’Unione europea espressi del Parlamento e dalla stessa commissione esecutiva. Basti pensare che per intere figure contrattuali, come nello staff leasing, scompare qualsiasi rapporto tra il lavoratore e l’imprenditore. Quel che però spaventa di più, in quest’impostazione, è il fatto che è del tutto assente il volano della formazione».

Sono misure che hanno a che fare con l’aumento dell’occupazione?

«È flessibilità per risparmiare, per ridurre l’occupazione, non per aumentarla. Siamo in un periodo in cui sotto tiro non sono più solo i cinquantenni ma i quarantacinquenni. La possibilità di assumere a tempo determinato una forza lavoro più giovane, magari con un minimo di bagaglio professionale, vuol dire accelerare l’espulsione di forza lavoro più anziana che non si vuole riqualificare perché costerebbe troppo. C’è la necessità di una politica dell’invecchiamento attivo. Ossia facilitare il prolungamento volontario dell’attività lavorativa, sostenendola con una politica di formazione e di riqualificazione del lavoratore e premiando il prolungamento dell’età lavorativa, anche in termini di valore della pensione. La condizione per iniziare qualsiasi discorso riguarda, però, il comportamento delle imprese. Che senso ha prolungare l’attività lavorativa, se l’impresa ti caccia a 45 anni e ti prospetta la disoccupazione di lunga durata fino ai 65 anni? È stato posto giorni fa, alla commissione Occupazione e affari sociali del Parlamento europeo il problema delle politiche atte a disincentivare l’espulsione delle categorie deboli dal mercato del lavoro. Il ministro Roberto Maroni ha risposto che su questa materia il governo non intendeva assolutamente intervenire».

da www.unita.it

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