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Pd e legge elettorale. Ulivo addio? (di Franco Monaco)
9.12.2007
Dobbiamo mettere a tema il nesso che unisce legge elettorale e PD. Nei prossimi mesi investiremo cospicue energie intellettuali e pratiche nel processo costituente del PD ai vari livelli. È bene essere consapevoli che, nel mentre siamo concentrati su quel fronte, buona parte della partita si gioca altrove. Il profilo, il posizionamento, la missione del PD saranno in larga misura determinati dalla legge elettorale che sortirà dal parlamento o dai referendum. Essa è la madre di tutte le questioni, lo “statuto dello statuto” del PD, secondo la felice formula di Parisi. Ecco perché, su di essa, esigiamo la più larga consultazione. Non c’è organo provvisorio del PD che abbia titolo per prendere una decisione identitaria e costituzionale di tale portata.

Non dobbiamo farci distrarre dalle tecnicalità delle più diverse soluzioni elettorali. Ci si deve piuttosto concentrare sulla sostanza politica. Ciò che a noi preme è la visione del sistema politico cui attendere, il centrosinistra che vogliamo e, in esso, l’identità del PD. In gioco c ‘è la continuità o la discontinuità rispetto all’Ulivo, sino al suo abbandono da più parti (specie rutelliane) da tempo teorizzato. Il quotidiano “Europa” in prima fila.

È bene fare un po’ di memoria. Pur dentro percorsi diversi, la più parte di quanti oggi si riconoscono nel Partito Democratico, nel recente passato, si sono riconosciuti nell’esperienza e nel progetto dell’Ulivo inteso quale strumento a servizio dell’evoluzione della democrazia italiana, dei suoi attori, delle sue regole, delle sue istituzioni.

Due sono stati gli antefatti decisivi dell’Ulivo:

· l’Antefatto per eccellenza, con la maiuscola, è stato il 1989: la caduta del muro di Berlino, lo scongelamento del sistema politico italiano, il collasso del sistema dei partiti della prima Repubblica;

· l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria sulla spinta dei referendum elettorali dell’inizio anni novanta.

Il maggioritario ha rappresentato un mezzo e tuttavia un mezzo necessario per produrre una positiva evoluzione della democrazia italiana in tre direzioni: 1) la restituzione di una effettiva sovranità ai cittadini elettori, sovranità usurpata dai vertici dei partiti già ridottisi a gusci vuoti, nella scelta di maggioranze, governi, premier (ricordate? “restituire lo scettro al principe-cittadino”, fare il “cittadino arbitro-decisore” dei governi…); 2) l’introduzione di una democrazia finalmente competitiva e dell’alternanza di forze e coalizioni alla guida del paese; 3) la maturazione di una democrazia governante, dopo cinquant’anni segnati da governi della durata media di dieci mesi: da allora il più forte deterrente alla precarietà dei governi è stata la drammatizzazione delle crisi, con la concreta minaccia di scioglimento delle Camere.

Fa impressione la smemoratezza delle classe dirigenti e ahinoi anche dell’opinione pubblica. Nel giro di un mese, abbiamo assistito all’improvviso rovesciamento del paradigma, dei fondamentali di quel ragionamento e di quel progetto cui abbiamo dato il nome di Ulivo (prima Rutelli, poi D’Alema, infine Veltroni). E ciò in aperto contrasto con gli enunciai della bozza di manifesto del Partito democratico stilata solo qualche mese fa dai “saggi”, ove si ribadisce a chiare lettere che il PD rappresenterebbe lo sviluppo e il compimento dell’Ulivo.

I segnali e l’enfasi sulla discontinuità sono parecchi. Penso alla “nuova stagione” che Veltroni ha assunto a proprio motto, al nuovo simbolo ove l’Ulivo è quasi scomparso, ma penso soprattutto ai presupposti istituzionali:

1. l’adozione di un impianto proporzionale per la nuova legge elettorale, un piano inclinato e un nuovo e opposto terreno di gioco mutuato da altri;

2. l’accento posto sul “vero” bipolarismo da opporre a quello “coatto” di ieri;

3. la rinuncia al vincolo di coalizione previo al voto, cioè a un patto politico stretto davanti ai cittadini;

4. la nozione di “partito a vocazione maggioritaria” assunto a sinonimo di autosufficienza e di “mani libere”, anziché come partito coalizionale teso alla sintesi di governo;

5. più generalmente la tesi, più o meno esplicitata, secondo la quale gli ultimi dodici anni della nostra esperienza politica sarebbero stati sprecati. C’è chi ha parlato di fallimento.

Tutto questo è precipitato nella proposta del cosiddetto “Vassallum”, che mira a un compromesso tra convenienze di parte, che sconta un deficit di visione e di convinzione a sostegno di essa. Senza visione e senza convinzione non si viene a capo dei veti incrociati ispirati a convenienze partigiane. Uno scatto di generosità, un sacrificio degli interessi particolari può essere chiesto solo in nome di un patto politico alto e della condivisione di un progetto sistemico.

Se comprendiamo bene, dietro il “Vassallum”, si intuisce la scommessa su una nuova mappa politica: un PD che esploda elettoralmente al 40% strategicamente alleato con una Cosa bianca di cui incoraggiare lo sviluppo grazie alla legge proporzionale. Su questo il più esplicito è D’Alema.

Faccio quattro domande: è sufficiente quantitativamente a vincere o quanto meno a competere con ragionevoli speranze di vittoria (gli studi e le stime di D’Alimonte lo negano categoricamente)? è rassicurante la qualità riformatrice di un centro strategicamente alleato, intestato ai Casini, Mastella, Dini, Di Pietro, che non promette il massimo in termini di innovazione e modernizzazione? produrrebbe stabilità o non piuttosto il suo contrario, conferendo a quel centro un potere di coalizione-ricatto esorbitante? un tale centro mobile non eserciterebbe un insidioso potere attrattivo per settori ex popolari mettendo a rischio l’unità del PD?

Concludo: ammesso e non concesso che il vaglio parlamentare non travolga gli arzigogolati correttivi maggioritari contemplati dal “Vassallum” che già ora, dentro il PD, declina verso un proporzionale puro, un tale schema di gioco giova al sistema politico italiano e al centrosinistra che, storicamente, con il proporzionale non ha mai vinto? La mia risposta è no. Del resto, già stiamo raccogliendo i primi frutti avvelenati: possiamo e dobbiamo esprimere disappunto per la irrituale e brutale dissociazione di Bertinotti dal governo, ma essa va letta anche come il prodotto del virus divisivo del proporzionalismo e di mesi di predicazione delle alleanze di “nuovo conio”. Un divorzio auspicato, annunciato, incoraggiato, con l’idea che esso giovi elettoralmente ad entrambi, PD e Cosa rossa, ma che mina l’unità dell’Unione oggi e la fa improbabile domani. Una divisione che promette sicura sconfitta del centrosinistra o rapporti incestuosi con Berlusconi. Certo, anche la destra è divisa, ma essa ci metterebbe un minuto a ricomporsi se si precipitasse verso elezioni. Non così noi. Complimenti ai nostri strateghi.

7 dicembre 2007

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