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Trentin, l’utopia della trasformazione della vita quotidiana
13.12.2007
Treviso, 11 dicembre 2007. Intervento conclusivo di Iginio Ariemma

La gioventù che resta
Nel mese di settembre, pochi giorni dopo la scomparsa di Bruno Trentin, alcuni amici di Bruno si sono ritrovati presso la fondazione Di Vittorio con l’intento di raccogliere gli scritti, le interviste, i filmati, e soprattutto di stimolare gli studi e la discussione sul suo pensiero. Il lavoro è già cominciato e parecchie iniziative sono in programma in varie città italiane e all’estero, in particolare in Francia e in Spagna. Ci siamo posti un primo obiettivo: un appuntamento di rilievo nazionale e internazionale, da tenere nell’autunno del prossimo anno, ad un anno dalla sua morte.

Sono lieto che questo programma abbia inizio proprio qui a Treviso e nel Veneto, dove ha vissuto i suoi primi anni in Italia. E’ questo uno dei periodi meno conosciuti, pure molto importante per la sua formazione culturale e politica, come hanno dimostrato le relazioni e le testimonianze qui presentate. Bruno era recalcitrante a parlare di sé. Qualcosa di più ha detto negli ultimi anni, specialmente dinnanzi alle domande poste dai giovani.

A Bruno era piaciuto molto un piccolo libro da me promosso e prefatto e in parte curato, che avevo intitolato “La gioventù che resta”. Racconta la Resistenza di un giovane comandante di Giustizia e Libertà, Michele Ficco, nascosto anche a casa mia, al Lingotto a Torino, che ha liberato il palazzo occupato dal partito fascista torinese, diventato poi l’università, e che, da allora, si chiama Campana come la brigata partigiana. A Bruno era piaciuta questa storia, non soltanto perché gli ricordava la sua gioventù partigiana, ma anche perché ne aveva compreso il monito, presente già nel titolo, per i giovani di oggi. Non si può ovviamente escludere che i grandi valori della libertà, della democrazia, della giustizia si apprendano sempre nel corso della vita, ma è sicuro che, se si introiettano da giovani, attraverso una esperienza concreta e di vita, non si perdono più. Bruno, infatti, ha continuato a indignarsi di fronte al sopruso e all’ingiustizia, di fronte alle cose che non andavano, nel paese ed anche all’interno della sinistra. E, inoltre, non ha mai smesso di “cercare”, cercare e cercare per scoprire la via perché la libertà di ognuno e di tutti potesse essere pienamente dispiegata.

Il coraggio dell’utopia quotidiana
Ho conosciuto Bruno molti anni fa, se ricordo bene nel ’68, nel secondo biennio rosso come lui lo definiva. E poi abbiamo continuato a vederci, nel suo e mio peregrinare tra Torino, Venezia, Roma, e nei vari incarichi di lavoro che reciprocamente abbiamo avuto, i suoi molto più di rilievo dei miei. Si è venuta così a costruire una sintonia prima culturale che politica. Ma è stato negli ultimi anni che questa affinità e diventata più solida e si è tramutata in una affettuosa amicizia, nutrita di lavoro comune e dalla quotidiana frequentazione. Bruno era presidente della commissione progetto dei DS ed io il suo coordinatore. Parlavamo oramai di tante cose, non soltanto di politica, ma soprattutto di politica. E parlavamo con grande schiettezza e libertà, superando la reciproca riservatezza, che era una caratteristica comune, e senza l’autocontrollo sedimentatosi negli anni della lunga esperienza di partito. Ho potuto così conoscerlo più da vicino e in modo più profondo. Sono convito che mano a mano che si procederà nello studio della sua opera emergerà non soltanto la sua ricchezza culturale, lo spessore intellettuale ma anche la forza del suo pensiero che, a mio parere, è stato uno dei più innovatori. Pietro Ingrao, quando Bruno è scomparso, ha detto che era un grande rivoluzionario. È vero se si riflette alla radicalità del suo pensiero, alla sua non ortodossia, alla capacità di mettere in discussione le categorie più consolidate e in particolare i luoghi comuni, al modo anche con cui ha esercitato la sua leadership nel sindacato, ma, nello stesso tempo, egli aveva bene in mente che i cambiamenti devono avvenire qui e ora, che tali cambiamenti diventano reali e duraturi se procedono dal basso, dalla società civile. Bruno aveva ben presente un insegnamento di Vittorio Foa, che è il nocciolo del riformismo: “Spesso un eccesso di impazienza verso i comportamenti graduali rivela la presunzione della propria centralità nei rapporti col mondo. La gradualità è un’attenta considerazione degli altri, della necessità del loro concorso nell’azione, e l’apporto degli altri, della gente richiede tempo.”

Per contro era aspramente critico verso ogni forma di millenarismo e verso ogni prospettiva palingenetica. La “rivoluzione” deve avvenire qui ed ora ed è innanzitutto un mutamento di coscienze, una conquista di spazi di libertà e di autonomia per la singola persona e per tutti. In “Il coraggio dell’utopia” dice a Bruno Ugolini: “credo di essere arrivato… alla convinzione che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica”.

La città del lavoro
Su alcuni concetti, veri nodi teorici, Trentin ci ha lavorato per tutta la vita, fino alla morte. Uno di questi, forse quello più rilevante, è il lavoro. Infatti ha intitolato il suo libro più maturo: “La città del lavoro”. È uscito nel 1997, tre anni dopo che aveva smesso di fare il segretario generale della CGIL. La città del lavoro è la sua utopia; è come la città di Dio di Sant’Agostino, la città del sole di Tommaso Campanella.

Quando l’Università Cà Foscari di Venezia, il 13 settembre 2002, gli ha conferito la laurea honoris causa, la lectio doctoralis di Bruno è sul tema “Lavoro e conoscenza”. È una lezione magistrale poiché, oltre ad una analisi puntuale e approfondita dei mutamenti del lavoro e del mercato del lavoro nella società di oggi, in essa c’è un’apertura teorica coraggiosa e insieme realistica: dalla necessità di collegare sempre più il lavoro al sapere per mezzo della formazione permanente all’imperativo di costruire “un nuovo contratto sociale, inclusivo di un welfare effettivamente universale” per rispondere alla flessibilità e alla precarietà in termini di certezza del diritto, fino alla promozione di un esteso invecchiamento attivo.

Non so bene quando abbia maturato l’idea, ma la sua concezione del lavoro è nettamente in controtendenza al modo di pensare comune e della stessa sinistra. “Il lavoro –scrive - è uno strumento di autorealizzazione della persona, un fattore di identità e insieme di cambiamento”. Perciò ha avversato, in modo intransigente, non soltanto le teorizzazioni che rifiutano il lavoro e ne negano il valore (basta ricordare la sua aspra polemica con Lotta Continua e i gruppi estremistici durante l’autunno caldo), ma anche quelle più recenti che predicano la fine del lavoro, da Jeremy Rifkin a Dominique Meda. Non siamo alla fine del lavoro, ma al mutamento della qualità di esso, del suo ruolo, degli stessi rapporti di lavoro. “I grandi cambiamenti in corso, che accompagnano l’esaurirsi dell’era fordista - scrive Trentin - segneranno il tramonto dello stesso concetto di lavoro astratto, senza qualità – l’idea di Marx e il parametro del fordismo – per fare del lavoro concreto, del lavoro pensato e, quindi, della persona che lavora, il punto di riferimento di una nuova divisione del lavoro e di una nuova organizzazione dell’impresa stessa”.

La stessa flessibilità del lavoro viene vista nella lectio doctoralis con realismo cioè come il prodotto dei mutamenti in corso: l’introduzione delle nuove tecnologie, la rapidità e la frequenza dei processi di innovazione e di ristrutturazione, che “tendono a diventare non più una patologia, ma una fisiologia dell’impresa”. Ma attenti, dice, a fare diventare la flessibilità del lavoro una ideologia, a non capire che va accompagnata da “un arricchimento e una riqualificazione costante”, da un nuovo contratto sociale che garantisca innanzitutto la formazione permanente oltreché la sicurezza del reddito presente e futuro. Di qui l’importanza del sapere e soprattutto del legame tra lavoro e conoscenza: sia per evitare la riproposizione di nuove disuguaglianze e di nuove gerarchie tra chi possiede il sapere e chi esegue, sia per determinare una nuova unità del mondo del lavoro, sia per estendere le libertà nei rapporti di lavoro. E’ un rovesciamento totale rispetto alla concezione tradizionale di ispirazione socialista e comunista ed anche di quella cristiano sociale, la quale considera il lavoro come necessità, come fatica, come “sofferenza nobilitante” che, proprio per questa sua natura, va risarcita e tutelata attraverso una politica sociale redistributiva. Ma si arresta di fronte al concetto di lavoro come liberazione della persona umana.

La libertà viene prima
“Anche nella storia del cosiddetto conflitto distributivo la vera posta in gioco è stata la libertà”. Così inizia l’ultima raccolta dei suoi scritti, del novembre 2004, che significativamente, ha come titolo “La libertà viene prima”.

La libertà viene prima in tutto, anche rispetto al salario, nell’organizzazione del lavoro e nella società. Per Trentin la libertà è capacità e possibilità di autorealizzazione, è, prima di tutto, libertà nel rapporto di lavoro. La libertà viene prima significa che non può essere rinviata a dopo: prima la conquista del potere, poi la libertà e nemmeno prima l’eguaglianza e poi la libertà. Di qui la forte originalità del suo pensiero rispetto a quello tradizionale socialista. Non si può concepire - scrive Trentin - lo sviluppo storico e quello delle forze produttive come una successione di tappe obbligate ed essere schiavi di una evoluzione sociale per cui la democrazia e lo stato di diritto si affermano soltanto ad un determinato stadio di civiltà e di progresso economico. La democrazia e la libertà sono necessarie anche nei paesi meno sviluppati, in cui non è stata ancora realizzata la rivoluzione liberale. Anzi sono fattori di crescita e di sviluppo. Lo stesso concetto propugnato ora da Amartya Sen. Tanto più l’affermazione della libertà è necessaria nei paesi che si autodichiarano socialisti.

La sua riflessione su questi aspetti prende corpo nel 1956 in seguito alla rivoluzione ungherese e all’invasione sovietica, da lui condannata, ma diventa matura con la relazione al convegno sul capitalismo italiano del 1962, durante il quale polemizza con Giorgio Amendola, al quale, tra l’altro, lo legavano antichi rapporti di affetto, avendo conosciuto Amendola da ragazzo a Tolosa quando, con suo padre e con Nenni, strinse il patto di unità d’azione. La polemica concerne l’analisi del capitalismo italiano, che non era soltanto arretrato e straccione, ma, secondo Trentin, aveva anche punti alti (il neocapitalismo), che dovevano essere aggrediti proprio a partire dalle condizioni di lavoro. E’ in quella occasione che Bruno avvia il suo studio sul pensiero cristiano sociale e in particolare sul personalismo di Maritain e di Mounier i quali “contestano alla radice il carattere oggettivo e scientifico del taylorismo che nega la persona come entità complessa e indivisibile, che ha una sua potenzialità creativa e una innata libertà di scelta.” Resta affascinato soprattutto dal pensiero di Simone Weil sulla condizione operaia, sul rapporto tra il taylorismo autoritario in fabbrica e il totalitarismo, e tra l’alienazione del lavoro e nel lavoro e l’atomismo e l’anomia nella società.

Ovviamente mettere al primo posto la libertà e non l’eguaglianza non significa per Trentin disconoscere la portata della conquista dei diritti sociali universali. Tali diritti sono gli spazi in cui tutti e soprattutto i più deboli e i meno abbienti possono esercitare concretamente la libertà della persona. Come Berlinguer egli ritiene che occorre fin da subito edificare “elementi di socialismo” che per lui sono appunto i diritti, le pari opportunità, il welfare community, il controllo sull’organizzazione del lavoro, la formazione permanente. Ciò che critica con molta asprezza è l’egualitarismo astratto che produce disastri. In questa denuncia è coerente per tutta la vita: sia quando esprime perplessità sull’abolizione tout court del cottimo, non sull’abolizione del sistema Bedeaux, a metà degli anni ’50 dopo la sconfitta della FIOM alla Fiat, sia quando si batte contro gli aumenti uguali per tutti nel contratto dei metalmeccanici nel ’69 finendo in minoranza, sia quando, nel 1975, è contrario all’unificazione del punto di contingenza della scala mobile. Ed è contro in tutti questi casi perché nell’astrattezza dell’egualitarismo, appiattente e livellatore, vede un grimaldello offerto al padronato per dividere i lavoratori, in specie per mezzo degli aumenti di merito non contrattati, a conferma delle ragioni di principio.

Dal sindacato dei consigli al sindacato dei diritti e di programma
Lo strumento principale che coniuga la libertà e il lavoro, senza dubbio alcuno, è il sindacato. Quando si è laureato a Padova nell’anno accademico 1948-49, Bruno ha avuto davanti due strade: o andare all’ufficio studi della Banca Commerciale, allora presieduta dal grande Raffaele Mattioli, oppure fare il ricercatore alla CGIL. Ha scelto, senza esitazione, questa seconda, diventando via via, alla scuola di Di Vittorio, uno dei più prestigiosi leader sindacali. Di Vittorio ha avuto una grande importanza su di lui, come ricordava sempre: perché gli ha insegnato l’abc della vita sindacale. In primo luogo l’autonomia del sindacato nei confronti del padronato, del potere e del partito, non soltanto in Italia, ma anche nei paesi governati dal partito comunista. Secondo, il sindacato deve essere libero, non obbligatorio né tanto meno unico. Ci deve essere piena libertà di aderire e di formare nuovi sindacati. Essenziale è la sua democrazia interna. Terzo il sindacato deve avere come bussola l’unità dei lavoratori e quindi l’unità tra i vari sindacati. Senza l’unità l’autonomia è soltanto apparente. Quarto il sindacato è un soggetto politico autonomo che “fuoriesce da ogni divisione di compiti tra sé e il partito”. Va ricordato che Bruno ha partecipato alla elaborazione del piano del lavoro e dello statuto dei diritti dei lavoratori dei primi anni ’50, le più importanti iniziative politiche della CGIL di Di Vittorio.

Trentin si è sempre attenuto a questi principi cercando di attuarli e di svilupparli. Uno dei periodi più alti della sua esperienza sindacale è stato quello in cui è stato il segretario generale dei metalmeccanici. Bruno è sicuramente il teorico del sindacato dei consigli. Un sindacato, come è noto, ben radicato nella organizzazione del lavoro con i delegati e i consigli di fabbrica, aperto a tutti i lavoratori, non soltanto agli iscritti. I delegati di fabbrica esprimono una nuova cultura della contrattazione sindacale e della tutela dei diritti dei lavoratori non più confinata nella pura rincorsa salariale; vengono contrattate non soltanto le condizione concrete di lavoro (i ritmi, i tempi, l’orario, la salute, etc.), per cambiare e umanizzare subito il modo di lavorare, ma viene messo in discussione il monopolio della decisione imprenditoriale e manageriale. Questa esperienza è stata ben diversa da quella ordinovista dei consigli del 1919-20 e di quella del dopoguerra dei consigli di gestione. I delegati e i consigli di fabbrica sono a tutti gli effetti strumenti e istanze del sindacato unitario e della federazione dei lavoratori metalmeccanici. Non è stato facile però, perché ha trovato nel sindacato e soprattutto nel partito, il PCI, contrarietà, resistenze, incomprensioni o comportamenti pilateschi. Me li ricordo bene perché allora dirigevo la federazione comunista di Torino. LA Fiat, insieme alla Zoppas- Zanussi di Conegliano, è stata uno dei laboratori più vivaci e avanzati di quella esperienza. Trentin ha sempre difeso i consigli. Ma, come era suo costume, non si è fermato qui. Quando, nel 1988, è diventato segretario generale della CGIL ripensa il sindacato di fronte agli sconvolgenti processi nuovi che scuotono il Paese e il mondo. E allora ecco la conferenza programmatica di Chianciano (aprile 1989), un altro dei grandi momenti del suo pensiero e della sua iniziativa.In questa relazione molte sono le novità sia di analisi che di proposta. Già il titolo di essa da il senso verso cui Bruno vuole condurre il suo sindacato: “Per una nuova solidarietà riscoprire i diritti, ripensare il sindacato”. In essa affronta quasi tutti i nodi irrisolti della politica sindacale: il rapporto sviluppo e natura e ambiente, la politica dei redditi e il debito pubblico, la necessità di affrontare in termini nuovi la contrattazione, la democratizzazione dell’economia e delle imprese. Ma è su due punti su cui insiste maggiormente: il sindacato non deve presumere di essere per la classe e deve partire nella sua azione non più dalla classe, ma dalla persona; e, in secondo luogo, deve farsi portatore dei diritti universali e divenire uno dei principali protagonisti della società civile con un proprio programma di società.

Superando così i limiti propri della politica sindacale.

L’autarchia del sindacato e la cosiddetta autonomia del sociale – Trentin lo sa bene e lo scrive- sono velleitarie e possono condurre in definitiva alla subalternità, tra corporativismo e massimalismo.

La sinistra e il partito
Da quanto detto mi sembra abbastanza chiaro quale era il rapporto con la politica di Trentin. Bruno aveva una grande passione politica, ma considerava la politica come costruzione di democrazia e di giustizia, come fare libertà, per dirla con Hannah Arendt, come un processo che aveva la sua forza e la sua legittimazione non dall’alto ma dal basso. Di qui la sua critica senza remore alle teorie sull’autonomia del politico.

L’autonomia del politico, senza riferimenti alla realtà sociale fondante, significa per lui considerare soltanto le alleanze e gli schieramenti e quindi cadere inevitabilmente in quella che è la principale anomalia politica italiana cioè il trasformismo. Bruno era un uomo di programmi, di contenuti. Non certamente di immagine. Rossana Rossanda ha scritto in un articolo su Il Manifesto che “non facilitò né contrastò la svolta di Occhetto”. E inoltre che Bruno sarebbe stato “esterno” ad essa, come lo è stato all’undicesimo congresso nel quale sono stati sconfitti gli ingraiani e nel 1970 quando è stato radiato il Manifesto. Mi risulta difficile rispondere sugli ultimi due fatti, ma posso dire, a ragion veduta, che, per quanto riguarda la svolta di Occhetto, non è assolutamente vero. Trentin, dopo l’annuncio della Bolognina, si impegna in una battaglia politica, come ben ricordo, perché quel mutamento sia il meno possibile soltanto di nome, ma riguardi i contenuti e un nuovo progetto di società. Infatti propone che il congresso sulla costituente del nuovo partito sia preceduto da una sorta di congresso programmatico. Invece si fa l’opposto: prima il congresso sul nome, poi la conferenza programmatica che ovviamente fallisce. Non solo.

Bruno compie un altro atto di grande rilievo prima del congresso di marzo del 1990; e questo con il consenso di Occhetto. Scioglie la corrente comunista della CGIL per evitare che il dibattito lacerante in corso nel partito abbia effetti nefasti sulla stessa CGIL.

Bruno ha sempre partecipato in modo attento e rigoroso a quanto avveniva nel partito. Fino all’ultimo. In linea di principio non aveva riserve sul Partito Democratico. Vedeva di buon occhio i processi unitari che si stavano creando nell’Ulivo e per l’Ulivo. Del resto la convergenza tra la sinistra e il mondo cattolico e cristiano più democratico e progressista era stata una delle bussole principali della sua azione nel sindacato e nel partito. Riteneva però che il processo di unificazione dovesse avere la necessaria gradualità e dovesse passare attraverso momenti federativi, al fine di consentire una reale convergenza e unità sulle scelte progettuali.

Senza dubbio Trentin era critico nei confronti della sinistra. “La sinistra – scrive ne “La città del lavoro” – deve prendere coscienza della crisi di identità che l’ha investita, ben prima del crollo definitivo dell’esperienza del socialismo reale”. E aggiunge: “La sinistra deve liberarsi della cultura fordista, sviluppista e taylorista di cui è stata impregnata. Se non lo fa sarà inevitabilmente condannata a subire una seconda rivoluzione passiva ben più vasta e di una durata ben maggiore di quella lucidamente analizzata alla fine degli anni ’20 da Antonio Gramsci”.

Purtroppo non vedeva i segni di questo ripensamento. Anzi vedeva da una parte una sinistra che aveva “un attaccamento atavico”, insensato, ad una tradizione ideologica che oramai non aveva più base, dall’altra parte una sinistra tutta tesa alla politica delle alleanze e degli schieramenti che Bruno definiva “il pragmatismo della governabilità”; e che, quando si occupava di contenuti e di programmi, cadeva spesso in una sorta di “accomodamento trasformistico alla modernizzazione”, cioè ritenere oggettivi e lineari e quindi incontrastabili processi che invece sono ombrosi, ambigui e contraddittori.

Il suo pessimismo cresceva di giorno in giorno come potevo constatare direttamente. Pur tuttavia non ha mai smesso di sentirsi parte e parte dirigente del partito. Perché? Come si spiega? Qui è stato ricordato che la sua scelta di iscriversi al PCI risale al 1948, dopo lo scioglimento del Partito D’Azione, anche se ufficialmente si è iscritto soltanto alla fine del ’49 dopo il suo ingresso nell’ufficio studi della CGIL. La spiegazione si può trovare, almeno in parte, in quella citazione di Foa che ho ricordato prima. Se c’era una cosa che a Bruno dava fastidio, e forse qualcosa di più, era il ritenersi o l’essere considerato al centro del mondo e quindi essere una mosca cocchiera. Un conto è avere le proprie idee, battersi fino all’ultimo per esse, non essere ortodosso e Bruno non lo era certamente. Un conto è la banalità dell’anticonformismo, la povertà culturale del dissenso pregiudiziale, il non comprendere il valore dell’organizzazione che è uno degli strumenti principali di cui dispone la classe meno abbiente e in particolare quella classe lavoratrice con la sua “straordinaria voglia di conoscenza e di libertà”, che, ricordava, aveva scoperto da giovane.

Organizzazione è il sindacato ma è anche il partito. La controprova di quanto detto è il modo con cui ha esercitato nella pratica la sua leadership quando è stato chiamato a fare il numero uno. Ha scritto giustamente Riccardo Terzi che Trentin “non ha mai tentato di imporre il decisionismo esclusivo del leader” e tanto meno non ha mai tentato di “alterare le regole della democrazia interna” pur di far prevalere le proprie idee. È stato “un capo che vuole decidere solo attraverso il consenso e la razionalità”, assumendo tutto il peso di una scelta così difficile. La dimostrazione l’ha data con l’accordo del 31 luglio 1992, tanto decantato dopo la sua morte, come testimonianza del suo alto senso di responsabilità nei confronti dello Stato, delle Istituzioni e dell’Italia. Tutto vero, ma si ignora che Bruno ha vissuto quell’episodio come una sconfitta, sua personale, della unità della CGIL e dell’autonomia e dell’unità sindacale. Infatti, dopo aver firmato l’accordo, ha rassegnato le dimissioni in quanto la firma non corrispondeva al mandato avuto dalla CGILe non era stato possibile consultare i lavoratori. Le sue dimissioni però sono state le basi della sua risalita e della rivincita, avvenute un anno dopo con il governo Ciampi e con l’accordo sulla concertazione che dura tuttora.

Gli ultimi anni
Gli ultimi anni per Bruno sono stati pesanti. Scrive molto: articoli, saggi, lunghe interviste, libri. Quasi come volesse liberarsi da un’ansia che riguarda il presente, ma anche il futuro. Pensare e scrivere fur ewig, per l’eternità, avrebbe detto Antonio Gramsci.

In questo periodo spicca in modo netto il suo europeismo. E non solo perché viene eletto deputato europeo. Il suo è un europeismo naturale, naturaliter, data la sua forte radice francese e le sue relazioni molteplici in tutta Europa e in tutto il mondo. La mia sensazione è che in questi ultimi anni si avvicinasse sempre più a suo padre, a quel “Liberare e federare” che è il cuore del pensiero di Silvio Trentin. Quando glielo ho detto non mi ha risposto né sì né no, ma mi ha sorriso.

Ha scritto Andrea Ranieri che Bruno negli ultimi anni della sua vita era un uomo solo. Nonostante l’affetto di noi amici.

Specialmente dopo la fine del suo mandato nel Parlamento Europeo. “E’ stato solo – scrive Ranieri – rispetto alle modalità più correnti della politica, solo rispetto al dibattito mediatico, solo rispetto ai luoghi dove si decideva”. La Commissione progetto dei DS che egli ha presieduto con speranza e con grande competenza ha prodotto materiali eccellenti sia per l’Italia che per l’Europa ma ha avuto una limitata risonanza prima di tutto all’interno del partito. I contenuti, la concretezza degli obiettivi su cui misurarsi e misurare il consenso e la forza del partito probabilmente interessavano a pochi. Ai più interessava il solito gioco degli specchi autoriflettenti e dei luoghi comuni mediatici. Eppure Bruno non ha mai mollato. Continuava a scrivere, a rilasciare interviste, a partecipare a dibattiti e riunioni, a esporre le proprie idee. Il suo ultimo intervento a mia conoscenza è stato su un tema di grande attualità: il razzismo e la necessità di una politica di integrazione degli immigrati. E lo ha fatto in modo vivo, concreto, come gli aveva insegnato Di Vittorio, partendo cioè dalla propria esperienza in Francia, e da quella dei milioni di emigranti italiani costretti a lasciare il proprio paese. Avrete capito che Bruno mi manca, mi manca parecchio. Mi manca soprattutto il suo sorriso, della bocca e degli occhi, con il quale, lui, muto e quasi immobile, lui così forte e sempre dritto come gli alberi delle sue montagne, mi accolse all’ospedale. Un sorriso profondo, tenero, affettuoso, senza alcuna remora e senza quel briciolo di riserbo che tra di noi era rimasto.

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