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In prospettiva (di Paola Carini)
12.02.2008
I rapporti tra gli abitanti autoctoni d’America e i coloni che vi giunsero successivamente si basarono sin dall’inizio su di una visione caratteristica, una prospettiva peculiare con cui i lettori di questa rubrica hanno familiarità: Colombo presumeva di essere nelle Indie Occidentali, i puritani presumevano di trovarsi davanti a dei selvaggi in una natura altrettanto selvaggia, i Padri Fondatori oscillavano tra l’imitazione e il fastidio, la retorica ottocentesca e del primo Novecento, corroborata dalle fotografie in bianco e nero di Edward Curtis, li voleva fieri esponenti di un popolo che stava scomparendo. Mentre la grande maggioranza dei nativo-americani era nei fatti perseguitata, ghettizzata, tormentata nello spirito e annientata nel corpo dall’inedia e dalle malattie, i nuovi americani vedevano alternativamente o “nobili” da imitare o “selvaggi” o da perseguitare. Tutto questo influenzò marcatamente anche i casi di ammirazione per gli “indiani”, come fu quella dei ricchi intellettuali che fondarono il circolo del “Grand Order of the Iroquois” nel 1842 e che contribuirono a gettare le basi della futura etnografia ed etnologia, ma anche la moderna antropologia, che nacque alla fine del secolo grazie ad un immigrato tedesco di nome Franz Boas. Egli istruì una schiera di studiosi che si dedicarono ad uno studio sistematico delle culture nativo-americane; tra gli altri Edward Sapir, che passò dall’antropologia tout court alla linguistica strutturale, e Alfred Kroeber (del quale si parla in “Uomini e Musei”) che sviluppò l’antropologia culturale dedicandosi soprattutto alle tribù della California. Ma per molto tempo sia per l’uomo comune che per lo studioso, “l’indiano” non fu solo il frutto di un’invenzione come afferma lo storico Berkhofer, ma fu anche presunto. E ciò che si presume comunemente, dice lo studioso del mondo classico James Havelock, è che solamente civiltà basate su di una qualche forma di scrittura siano degne di questo nome.

Del patrimonio culturale autoctono − linguistico, musicale, artigianale, coreico – l’aspetto orale divenne oggetto della giovane disciplina dell’antropologia che, strettamente correlata alla linguistica, muoveva i primi passi verso la raccolta, lo studio e la salvaguardia del corpus orale dei gruppi tribali del continente.
Col tempo la metodologia si modificò sul campo, nacquero nuove branche e correnti di pensiero differenti ne raffinarono scopi e principi; più si raccoglieva materiale, più ci si accorgeva che dietro a ciò che poteva sembrare mito o racconto leggendario, si nascondeva una retorica elaborata, una musicalità inaspettata, una lingua sorprendentemente complessa. Il contemporaneo Alan Dundes, studioso di folklore, fu il primo a comporre una “Morfologia della leggende degli indiani dell’America del Nord”, mentre Dell Hymes, sviluppando l’approccio linguistico strutturale, elaborò un metodo che integrava l’analisi linguistica, antropologica, letteraria e folkloristica per sottolineare la poeticità di racconti orali come quelli della costa pacifica del nord. Superando i rigidi metodi di ciascuna disciplina, egli aprì la strada ad una visione più completa di quella che cominciava ad essere chiamata “l’arte verbale” dei nativo-americani. Non si può comprendere il significato dei racconti se non unitamente al loro contesto culturale, diceva tra le altre cose Hymes, restituendo importanza alla letteratura orale e dignità alle popolazioni che l’avevano prodotta. Ma al lettore curioso di certe raccolte di “leggende e miti” degli indiani del Nord America viene spesso tolta la possibilità di leggerle in questa prospettiva.

A chi è abituato a racconti popolari europei o alle classiche fiabe, ricordano i compilatori di una famosa antologia, i racconti strutturalmente senza andamento cronologico dei nativo-americani sembrano “caotici, incoerenti, incompleti”, con protagonisti dalle azioni contraddittorie e incomprensibili mescolanze tra sacro e profano, realtà e fantasia. Occorrono conoscenza e sensibilità, accuratezza e semplicità nell’introdurli ad un pubblico molto spesso ignaro. Questo hanno fatto l’austriaco Erdoes e il nativo-americano Ortiz, e poi molti altri compilatori (nativo-americani e non) affinché si potesse dare la giusta dimensione ad un patrimonio orale davvero notevole che parla di geografia e di miti, di animali e di uomini. C’è l’aracneo Iktome, a seguito dei cui cattivi consigli i lakota decisero di accamparsi in circolo con le entrate dei tipi una di fronte all’altra, in modo da sapere quando il dispettoso ragno sarebbe arrivato, o la dea Sedna dell’estremo Nord, “colei che veglia sulle profondità marine”, dalle cui dita, tagliatele mentre abbrancava un kayak per non affogare, nacquero gli animali marini. C’è l’onnipresente coyote, burlone irriverente, e il corvo che, come la ghiandaia azzurra americana (qui nella foto di Ken Thomas), porta la luce in un mondo buio.

Se minimamente o solo banalmente spiegati, i racconti autoctoni è come se perdessero tridimensionalità e si appiattissero diventano inevitabilmente bidimensionali, come le fotografie di Curtis. E come i nativo-americani che Curtis metteva in posa camuffando realtà di sofferenza con scatti di finzione, anche i racconti, recisi dal sostrato che li ha intessuti, divengono ciò che non sono: leggende, miti di fantasia, fiabe per bambini. Ma se noi crediamo alle vostre storie, scriveva il medico sioux Ohiyesa, perché voi vi rifiutate di credere alle nostre?

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