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Prodi: l'Italia che vogliamo si può fare
17.02.2008

Prodi: l'Italia che vogliamo si può fare
Il discorso di Romano Prodi all'Assemblea Nazionale del Partito Democratico
Care democratiche e cari democratici
"la pazienza, ecco un rimprovero che sovente ci rivolgono nel nostro
lavoro politico, come se la pazienza significasse mancanza di
volontà... come se la pazienza non fosse la virtù più necessaria al
metodo democratico.

Questa frase non è mia. È di Alcide De Gasperi, del 20 novembre 1948.
Sessant'anni fa. Essa mi sembra ancora adatta per oggi, anche se la
frenesia della campagna elettorale non si concilia facilmente con il
concetto di pazienza.

Credo invece che questo sia l'approccio giusto con il quale aprire
questa nostra importante assemblea.
Un approccio che dovremo conservare quando, dopo le elezioni, potremo
tornare alla guida del Paese.
Una pazienza che abbiamo esercitato nel perseguire il nostro obiettivo
fin dal 1995. Una pazienza messa alla prova in due esperienze di governo.
Essa fa parte, intrinsecamente, del progetto e dell'idea che ci hanno
unito, che ci hanno portato fin qui. Il progetto di una grande forza
di centrosinistra.
Una forza che fa appello alla maggioranza del nostro Paese.
Una forza che affronta con serietà, con uno spirito nuovo e con idee
nuove i problemi dell'Italia: il Partito Democratico.

Il contributo di innovazione del Partito democratico nella politica
italiana è enorme: dalle primarie fino alla costruzione dal basso di
un vero partito, abbiamo introdotto una ventata di freschezza e di
novità che in Italia non si era mai vista.

Oggi sono qui di fianco a Walter e a tutti voi per rispondere alle
domande che la difficile realtà internazionale e la crisi del nostro
sistema politico ci pongono.

Abbiamo lavorato in questi anni per mettere insieme culture politiche
che affondano le loro radici in una storia diversa ma che fanno
riferimento ad un terreno comune: quello del riformismo.
Il nostro è un riformismo che affonda le proprie radici nella pace e
nell'Europa. Un'Europa unita che non si esaurisce certo nel rispetto
dei parametri di Maastricht.

Essere europei significa infatti lavorare per una democrazia matura,
una democrazia dell'alternanza. Una democrazia in cui autorità non
significa autoritarismo, ma capacità e potere di prendere le
necessarie decisioni.
Una democrazia in cui le nuove generazioni si possano riconoscere
nelle maestà della legge come nell'esempio dei genitori, degli
insegnanti e dei politici che ci rappresentano.
Una democrazia che trova la propria forza soprattutto
nell'interpretare il nuovo e nel costruire il futuro.
Questa democrazia e questo riformismo ci orientano e ci guidano anche
nelle scelte economiche, che oggi debbono fare fronte alle sfide della
globalizzazione e di una nuova concorrenza.
Queste sono sfide che si vincono solo col cambiamento che, nella
società italiana significa rompere le incrostazioni e i privilegi che
da tempo ne hanno impedito progresso, sviluppo ed equità.
Il nostro riformismo si fonda perciò sulla ricerca del nuovo e sulla
promozione del cambiamento, per riprendere con vigore la via della
crescita economica e sociale del Paese.
Noi tutti abbiamo il dovere di non voltarci indietro di fronte alle
nuove sfide nazionali e internazionali.
Un dovere che chiama in gioco la politica, le istituzioni, le comunità
locali e i singoli cittadini.
Il nostro riformismo deve essere quindi proiettato verso il futuro, ma
non può non fondarsi sulle grandi virtù della libertà, della
tolleranza, del dialogo e del confronto, virtù che rappresentano i
punti più alti della nostra storia e della nostra memoria.

E queste virtù debbono guidare tutti i comportamenti individuali e
collettivi della nostra società a partire dal delicato rapporto fra
cattolici e laici.

Chi, come me, si è formato nel clima del Concilio Vaticano II, dava
per superata, per quasi risolta la questione della laicità.
Vedo invece riemergere il conflitto sulla laicità con forza, quasi con
violenza.

È importante interrogarsi sul perché, senza schematismi o strumentalizzazioni.
E soprattutto è necessario rivisitare in profondità il rapporto tra
una costruzione statale ormai secolarizzata e l'emergere di nuovi
fenomeni religiosi.

Non ci sono solo gli integralismi, vi sono anche nuove autentiche
domande e inedite sfide etiche che meritano nuove risposte.
In Italia troppo spesso crediamo di essere di fronte a un problema non
componibile. Ad uno scontro inevitabile.
Noi non siamo all'inizio della storia: ancora di recente il tema è
stato affrontato positivamente, anche a livello europeo.
Il Trattato di Lisbona ha riconfermato integralmente il precedente
articolo 52 del Trattato Costituzionale europeo: uno dei testi più
avanzati in tema di dialogo aperto, trasparente e regolare tra le
comunità religiose, gli Stati e l'Unione.
In esso l'Europa riconosce per la prima volta l'identità e il
contributo specifico delle chiese e delle comunità religiose.

Ho lavorato molto, insieme a Giuliano Amato, perché quell'articolo
fosse scritto e approvato.
L'ho voluto perché ero e sono convinto della necessità di riconoscere
uno spazio pubblico alla dimensione religiosa.
Perché ero e sono convinto che la laicità sia un luogo di
comunicazione positivo tra diverse tradizioni spirituali e la Nazione.
Perché ero e sono convinto che il rapporto tra lo Stato e le comunità
religiose debba essere improntato al dialogo e non a una neutralità
negativa o alla reciproca indifferenza.

Questa è la mia laicità.

Allora mi chiedo perché, da più parti, in questi anni si è generato e
si continua ad alimentare un clima di scontro tra laici e cattolici,
evocando fantasmi del passato, quando la nostra strada, il nostro
futuro è quello di essere necessariamente e positivamente assieme. Non
ho risposta. So solo che ormai da alcuni anni si procede nella
direzione sbagliata.
Assisto infatti, con tanta preoccupazione, al moltiplicarsi di
atteggiamenti negativi, che occupano entrambi gli schieramenti politici.
Da una parte si fa strada la strategia dell'elogio e dell'ossequio
acritico e formale alle autorità religiose.
Dall'altra vedo la volontà di non affrontare i problemi che dividono
la nostra società, solo per non pagarne il costo politico.
Né l'una né l'altra scelta consentono una convivenza matura tra laici
e cattolici.
Anzi, sia l'una che l'altra contengono di fatto la volontà di rendere
irrilevante il contributo di una ispirazione religiosa, del quale
contributo anche lo sviluppo della laicità ha bisogno.


Unità, laicità, modernità. Da questi concetti siamo partiti per
disegnare l'Italia che vogliamo.
Oggi, questo disegno è ancora abbozzato, troppo lontano dal quadro
originale che avevamo in mente.

Ci troviamo ancora a combattere con uno scarso dinamismo della nostra
società. Una società dove, colpevolmente, manca ancora una seria
cultura che premi le capacità, dove il corporativismo è sempre
presente, dove pochi vogliono rischiare.

Non dimentichiamo però che le nostre potenzialità sono enormi: noi
rappresentiamo una delle principali forze dell'occidente.
Non ci aspetta un ineluttabile destino di declino, come molti hanno
sciaguratamente scritto.
I nostri prodotti sono presenti su tutti i mercati del mondo e, anzi,
in questo ultimo anno, questa presenza è aumentata in maniera significativa.

Noi dobbiamo saper mettere a punto le nostre potenzialità. E lo
possiamo fare grazie alle straordinarie risorse che l'Italia ci offre:
eccellenze in campo produttivo, tecnologico, artistico, ambientale, culturale.
E soprattutto risorse umane, donne, uomini, giovani a cui dobbiamo
solo fornire gli strumenti per costruire un'Italia migliore e più moderna.


Già due volte gli italiani hanno scelto di affidarsi a noi per
affrontare e vincere queste sfide.
Abbiamo vinto le elezioni nel 1996 e, di nuovo, dieci anni dopo,
abbiamo vinto nel 2006.
In entrambe le occasioni non abbiamo sconfitto solo lo schieramento e
il candidato che si opponeva a noi.
Abbiamo sconfitto un modo inaccettabile di intendere la politica, di
intendere il rapporto tra governanti e cittadini, tra democrazia e
informazione.
Abbiamo combattuto e sconfitto una politica di isolamento in Europa,
una linea di politica estera che era ed è lontana dal nostro concetto di pace.
Per questo motivo siamo tornati a casa dall'IRAQ.
Per due volte abbiamo vinto.
Ma questo non è bastato a risolvere i nostri problemi.

Oggi, però, sono più sereno di qualche anno fa.
Lo sono perché, oltre alla forza del progetto, abbiamo l'energia che
ci viene dall'aver costruito un soggetto politico.
Il Partito Democratico. E se oggi siamo qui tutti uniti molto dobbiamo
al contributo e alla generosità di Piero Fassino e Francesco Rutelli.
Noi, del Partito Democratico, siamo una forza che ha l'ambizione e le
carte in regola per governare bene questo Paese.
La responsabilità di governare noi democratici (ed io in particolare)
l'abbiamo assunta tutta, fino in fondo, fino alla fine.

Credo però che l'importanza della funzione di governo e la grandezza
della responsabilità che esso comporta sia oggi presente più nella
società, tra i cittadini, che nel comportamento di una parte della
classe politica. Noi abbiamo perciò il dovere di raccogliere questa
domanda di governo e questa consapevolezza della nostra società.

Bisogna tornare al significato vero della parola "politica"; che
significa "agire per cambiare le cose".
È un'idea che Walter ed io abbiamo portato avanti fin dai tempi del
pullman e che è proseguita fino alle primarie: quelle del 2005 e
quelle del 2007. E voi tutti, qui, ne siete testimoni. Proprio per
questa convinzione credo che il Partito Democratico sia l'evoluzione
dello spirito originario dell'Ulivo.


Se traccio un bilancio di questi ultimi due anni di governo, vedo
benissimo le difficoltà e le contraddizioni di fronte alle quali ci
siamo trovati, gli interessi costituiti che si sono opposti alla
nostra azione.

Gli interessi di quelle imprese e di quelle categorie che vogliono
operare al riparo della concorrenza, di quella finanza che pretende di
farsi guida e sostituirsi all'economia reale.
Gli interessi di chi pensa che il cambiamento e i sacrifici siano
utili, solo se ad affrontarli sono gli altri.
E abbiamo anche dovuto affrontare la difficoltà di rompere la barriera
tra chi è dentro i sistemi di tutela e chi ne è fuori.
Abbiamo combattuto contro una cultura che legittima e incoraggia
l'evasione fiscale.
Abbiamo infine combattuto quegli interessi clientelari e mafiosi che
imprigionano e negano il futuro del nostro Mezzogiorno.

Tutti questi interessi traggono forza dalla debolezza del sistema
politico. E' la nostra debolezza che li fa diventare "poteri forti".

In questi anni, attaccando il governo di centrosinistra è stata
attaccata soprattutto l'idea di cambiamento.
Un cambiamento che, dobbiamo ammetterlo, non siamo stati in grado di
esprimere compiutamente, per le difficoltà e gli ostacoli che tutti
conosciamo.
A causa, in primo luogo, dell'orribile legge elettorale imposta dal
centrodestra alla vigilia delle elezioni del 2006 per colpire l'Unione
e impedirci di vincere con ampia maggioranza.

Mi sento quindi di rivendicare con forza l'azione del nostro governo.
Ci siamo sempre mossi in coerenza con il nostro progetto.
Abbiamo portato avanti una precisa linea politica.
Insieme al necessario e indispensabile risanamento abbiamo fatto
crescere il Paese.
Sul piano internazionale, dal Libano al Kossovo, all'Afghanistan,
abbiamo assunto tutte le responsabilità che competono a un grande
paese come l'Italia. Ai nostri soldati che per questo hanno dato la
vita rivolgo un omaggio commosso.
Con la crescita, abbiamo iniziato a ridurre le disuguaglianze e le
disparità che nei precedenti cinque anni si erano accentuate in modo
intollerabile.
E' motivo di profondo orgoglio essere riusciti, nel momento stesso in
cui risanavamo i conti dello Stato, a redistribuire un punto
percentuale di Pil (15 miliardi di Euro) alle fasce più deboli della società.


Una redistribuzione resa possibile da quei successi nella lotta
all'evasione fiscale e nella diminuzione della spesa pubblica, che ci
vengono oggi finalmente riconosciuti da tutti, a partire dall'Unione Europea.
Quando parlo di redistribuzione, mi riferisco all'aumento delle
pensioni basse, all'assegno per i più poveri e, ancora, agli
interventi sulla casa, con gli sgravi per l'Ici e per gli affitti.
E certo si inseriscono nel solco di questa missione di sostegno alla
crescita, gli sgravi alle imprese per ridurne i costi e aumentarne la
capacità di innovare e di creare occupazione.
E l'aumento della nostra dotazione di infrastrutture, alimentate da
risorse reali e non inventate.
E, ancora, l'intervento serio sui costi della politica con il taglio
di spese e privilegi.
E la vera lotta alla precarietà, portata avanti favorendo una
flessibilità positiva, con vantaggi per chi assume lavoratori con
contratti a tempo indeterminato.
E, infine, i provvedimenti per la sicurezza sul lavoro e per
l'emersione del lavoro nero (190.000 lavoratori edili emersi dalla
schiavitù del lavoro nero).
Non spetta certo a me dare dei voti su quanto abbiamo fatto.
Tuttavia in serena coscienza posso dire che nelle condizione date,
siamo stati bravi. Forse, molto bravi.

Certo siamo rimasti sotto il livello delle aspettative che il Paese
aveva verso di noi.
Questo perché il nostro progetto era un progetto di legislatura e il
nostro percorso è stato interrotto ad un terzo del cammino.

Con queste nuove elezioni siamo chiamati a riprenderlo con vigore e a
rilanciarlo in forme nuove.


Da parte mia ho già annunciato che non mi ricandiderò al Parlamento.
Lo faccio perché ritengo di avere compiutamente svolto il compito che
mi ero proposto. Lo faccio perché anche voi in piena libertà possiate
svolgere il vostro compito. Lo faccio perché la buona politica esige
il rinnovamento. Il rinnovamento delle persone e delle generazioni.
Ma nel nostro Partito Democratico io ci sarò ancora. Sarò ancora con
voi, sarò ancora insieme a voi.


Care democratiche, Cari democratici,
Abbiamo pagato in questi anni la frammentazione e l'immaturità di
quella che Arturo Parisi chiama "democrazia governante".
Ma la lezione di questi ultimi anni è che, per riformare il sistema
politico, non ci si può affidare alla sola ingegneria istituzionale.
La soluzione può venire soltanto dalla politica.
E' per questo che, vissuta l'esperienza di questa legislatura, abbiamo
scelto di costruire un soggetto forte e unito: il Partito Democratico.
Un Partito Democratico per superare le divisioni che hanno lacerato l'Italia.
Un Partito Democratico per unire e guidare i riformisti italiani.
Un Partito Democratico che è il compimento del progetto che Walter ed
io lanciammo con l'Ulivo.
Per tutto questo, insieme a tutti voi, anch'io oggi vi dico che
L'Italia che vogliamo (caro Walter) si può fare.

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