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Anni di piombo. Il coraggio dell’abbraccio (di N. dalla Chiesa)
26.02.2008
La violenza come sublimazione della fede politica, come prova suprema della sua coerenza. L’assassinio come pedaggio da pagare alla realizzazione dell’“Ideale”.

Pedaggio sgradevole, è vero, ma non ignobile, visto che «la rivoluzione non è un pranzo di gala». La vita umana come valore sacro solo per i cattolici piccolo-borghesi, non certo per i rivoluzionari.

Chi pensa che questo corredo ideologico sia appartenuto solo a frange di fanatici, a gruppuscoli impazziti che hanno costellato di sangue la storia degli anni settanta in totale estraneità al contesto culturale dei tempi, sbaglia. E chi lo dice mente (spesso) sapendo di mentire.

Quel corredo giunse a centinaia di migliaia di giovani, di destra e più frequentemente di sinistra, come un deposito della storia; grazie alle culture fuoriuscite allo stato brado dagli argini delle teorie politiche della rivoluzione, ciascuna munita delle proprie salvifiche doppiezze, o dall'effervescenza creativa del sessantotto.

Difficile teorizzare la rivoluzione armata senza lasciar covare sotto le ceneri l’idea che - oggi o domani, dipende - la storia possa camminare sull’esercizio della violenza fisica, concimarsi con la morte dei nemici di classe. Difficile teorizzare l’estetica della rivoluzione, il valore antiborghese del “gesto” sovversivo senza inoculare il veleno della purezza del delitto. Specie se in ascolto è un naufrago diciottenne o uno sbandato della lotta di classe in cerca di grandi ragioni per vivere.

I cattivi maestri, anche di nobili intenzioni, figli di tempi tragici o (più tardi) padri di tempi tragici, sono stati legioni, da una parte e dell’altra. Hanno avvelenato a lungo i pozzi della politica, trascinando le speranze più generose verso l’orrore senza ritorno.

Ragazzi di buona famiglia uccidevano il missino Sergio Ramelli. Ma ben più numerosi erano i ragazzi di buona educazione e animati da ideali di cambiamento pronti a scrivere che «uccidere un fascista non è un reato»; o ad aggiungere al «Ramelli vive» che campeggiava rabbioso e orgoglioso su qualche muro, uno spietato «tra i vermi».

E ancora molti più ragazzi leggevano imperturbabili quell’aggiunta disumana e ne ridevano. No, per quanto tutto sia storicizzabile, per quanto ogni generazione abbia dovuto incolpevolmente respirare e assimilare i suoi veleni culturali (ci sono anche i veleni pacifici, infatti, anche quelli odierni dell’ipnosi catodica), ciò che accadde negli anni settanta non può non fare orrore e non può essere coperto dal fatto - vero, verissimo - che essi, oltre a essere anni di piombo, furono anche e forse soprattutto anni di conquiste civili, sindacali e culturali.

L’abbraccio di domenica scorsa a Roma tra Giampaolo Mattei e la madre di Valerio Verbano sotto lo sguardo di Walter Veltroni intreccia due delle tragedie più agghiaccianti di quel periodo, dipingendocelo - quel periodo - con un’unica, terribile pennellata. L’abbraccio offre però qualcosa di più alto di una “riconciliazione”.

Non si sono abbracciati infatti l’autore della violenza e la sua vittima. Ma le vittime di violenze opposte. Che fra di loro nulla hanno da perdonarsi.

Innocente è Giampaolo Mattei, fratello di Virgilio (ventidue anni) e di Stefano (otto!). Innocente è Maria Zappelli, madre di Valerio (diciannove).

Il primo piange ancora la tragedia di una famiglia con sei figli; a cui tre militanti di Potere Operaio decisero una notte di dare alle fiamme la piccola casa, avendo perfettamente l’età della ragione per sapere che quella tanica sciagurata e le fiamme che ne sarebbero divampate avrebbero potuto distruggere otto vite nel modo più orrendo.

Da allora l’immagine dei due corpi carbonizzati resiste negli archivi della memoria a spiegare in quale abisso di vergogna possa precipitare il mito rivoluzionario.

La seconda, Maria Zappelli, fu costretta a un’atrocità senza pari per una madre. Dare ospitalità a tre “amici” del figlio che, una volta in casa, si riveleranno esserne gli assassini.

Attendere che il figlio torni, anzi, sperare che non torni, perché davanti a lei e suo marito, legati e imbavagliati, ci sono quelli che lo uccideranno. Sentirlo tornare. Disperarsi nel silenzio di un secondo. Sentirlo uccidere. Un bel gesto rivoluzionario, non c’è che dire. Un bel modo, per i tre militanti dei nuclei armati rivoluzionari della estrema destra, di “vendicare” i morti della propria parte.

Trent’anni dopo, l'abbraccio di domenica dice la superiorità dei sentimenti umani davanti alla politica che li rinnega; la forza suprema del dolore di fronte al quale ogni ideologia dovrebbe rannicchiarsi e farsi sospettosa di se stessa.

Mescola due storie nel punto esatto in cui vanno mescolate, fuse. Quello della vita, lei sì valore supremo, che è stata violata. Quello della pietà che si erge sopra tutto e pretende l’omaggio di chi si è perso a onorare falsi idoli. Riporta al centro il valore immenso della pìetas latina, il valore che, continuamente aggredito e insultato, dà sempre senso, alla fine, alle comunità umane. E che può essere offeso, prima di giungere all'assassinio e alla sua rivendicazione, in tante altre forme, attraverso tutte le (lecite) manifestazioni del pensiero e della parola, dai documenti politici alle barzellette, dagli articoli di giornale ai discorsi da osteria o a quelli che si fanno nelle istituzioni.

È lunga la catena che legittima l’offesa alla pìetas. E lunga è la catena degli offesi, dal bimbo rom fino al potente giusto. Per questo la natura politica dell’omicidio, nei due casi ricordati come in tutti gli altri, lungi dall’essere attenuante ne diventa aggravante. Non certo agli occhi di un tribunale, ma certo davanti alla coscienza di chi ama la politica e si batte per renderla strumento di cambiamento; perché essa obbedisca, prima di tutto, ai grandi valori che fondano le comunità umane.

È stato un abbraccio speciale. Degno di tempi che scoprono ingiustizie sepolte.

Volendo, non c'è stata infatti riconciliazione neanche nell’accoglienza riservata di recente al bel libro di Mario Calabresi, «Spingendo la notte più in là». Anche in quel caso nessun incontro, nessun abbraccio, tra chi uccise e le vittime. E nemmeno tra chi orchestrò una campagna spietata contro il commissario e la sua famiglia.

Ma il trionfo della pìetas; la scoperta, da parte di un'opinione pubblica finalmente vigile verso se stessa, finalmente disposta a scrutare nei pozzi neri della storia, di una famiglia che a quella pìetas aveva diritto dopo decenni di diffidenze e rimozioni.

Un abbraccio che certo sembra suggellare una “fine degli anni di piombo”, quella fine tante volte e un po’ ipocritamente invocata per chiedere amnistie per terroristi e (nella classica logica dello scambio politico) per altre categorie di criminali. E tuttavia non è la fine di quegli anni perché oggi i nemici di ieri si parlino. È la fine perché i nemici di allora, da quell’abbraccio tra innocenti, vengono sconfitti insieme nell’infinita miseria della loro idea di politica. Perché tutt’e due insieme, in quell’abbraccio tra un giovane uomo e una donna anziana, possono specchiarsi e provare ripugnanza per se stessi. E scoprire di essere uguali, maledettamente uguali.

da www.unita.it

***

Chiusi gli anni di piombo
Veltroni con i familiari di Valerio Verbano e dei fratelli Mattei

E' gremito il Palalottomatica per la manifestazione che segna il passaggio del testimone tra Walter Veltroni e Francesco Rutelli nella Capitale. Il sindaco uscente arriva e si siede in prima fila, accanto all'ex primo cittadino e nuovo candidato al Campidoglio Francesco Rutelli. Sui maxischermi scorrono le immagini del viaggio di Veltroni in Africa, immagini della città. Sul palco si alternano gli artisti, Fiorella Mannoia canta 'La storia siamo noi', mentre in platea sono seduti diversi esponenti del Pd, a cominciare da Goffredo Bettini, Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Giovanna Melandri. Veltroni parla per quasi un'ora, a braccio, ricorda il lavoro svolto "in questi sette anni da sindaco" ma non solo: il suo intervento è un elogio del ruolo di sindaco, di quel modo di fare politica che lui propone anche per il governo nazionale, della fatica del "ricucire" dopo gli anni delle divisioni e dell'odio.

Il segretario del Pd senza dimenticare che in primavera si voterà anche per il Campidoglio e, quindi, manda un messaggio ben preciso che lancia la candidatura di Rutelli: "Dal '93 ad oggi abbiamo cambiato la città. Io mi sono potuto avvalere del lavoro che ha fatto Francesco, lui potrà fare altrettanto".

Veltroni rivendica ai governi di centrosinistra la metamorfosi di Roma da "città un po' sonnacchiosa, la città della pennichella - e io sfido a trovare ormai un romano che fa la pennichella - ad una città in cui la crescita economica è il doppio di quella nazionale". Veltroni snocciola i dati sul l'incremento del turismo, sull'aumento degli occupati, sulla percentuale di Pil nazionale prodotta a Roma (l'8,7 per cento), ricorda le infrastrutture e le opere realizzate dal '93 ad oggi, dall'Auditorium al passante a nord-ovest, fino alla nuova Fiera di Roma e all'apertura dei cantieri per la linea C della Metro. Insomma, un bilancio più che positivo ed un lavoro da continuare con Rutelli.

La città non è solo un insieme di mattoni. «Questi minuti - ha detto Veltroni - resteranno per sempre nella mia vita. Vedo molto persone con le quali ho lavorato in questi anni, è un'emozione strana. Il lavoro di questi sette anni è stato collettivo, ciascuno per la sua parte ha fatto qualcosa per la città». E poi, citando Italo Calvino: «La città non è solo un insieme di mattoni, ma soprattutto quella strana e impercettibile cosa che sono le relazioni tra le persone, un filo impercettibile che ha dentro di sé l'amore per la città e la responsabilità». Dopo aver ricordato di aver svolto in questi anni «un grande lavoro di ricucitura» ha ripetuto uno degli slogan del suo settennato: «"Nessuno resti solo", un'ossessione che mi ha e ci ha accompagnato durante questo lavoro». Il ricordo delle vite spezzate, la chiusura degli anni di piombo. Un particolare saluto è stato rivolto a chi, in questi anni, ha perso in circostanze drammatiche i propri cari e a «quelle vite spezzate nella più inutile delle guerre»: il ricordo è corso a Valerio Verbano e ai fratelli Mattei, i cui familiari erano presenti in sala. Al Palalottomatica, infatti, c'erano anche Giampaolo Mattei, fratello dei due giovani militanti dell'allora Msi uccisi nel rogo di Primavalle e la signora Zappelli, madre di Valerio Verbano, il giovane di sinistra assassinato a 18 anni il 22 febbraio 1980 da un commando dei Nar. Oltre a loro, la famiglia Sandri e quella di Benedetta Ciaccia. Gabriele Sandri è il tifoso laziale ucciso l'11 novembre scorso all'autogrill di Badia al Pino, vicino Arezzo, mentre Benedetta Ciaccia è la ragazza morta negli attentati a Londra del luglio 2005. Un grande applauso si è levato dalla platea quando Veltroni ha ricordato i viaggi della solidarietà in Africa e quelli della memoria ad Auschwitz, chiedendo di alzarsi agli ex deportati Piero Terracina e Shlomo Venezia, presenti alla kermesse.

«Quando ho chiesto aiuto mi è sempre stato dato. Come quando Totti...». «E voglio dire ancora - ha detto Veltroni - ogni volta che ho chiesto aiuto è stato dato. Come quando Francesco Totti ha dato 600mila euro per gli anziani della nostra città. Si può essere ricchi, ma bisogna avere cuore per fare una cosa del genere».

«Tolgo il cappello, saluto e dico grazie». «L'unica cosa che posso fare, ricordando le parole di Alberto Sordi, è togliermi il cappello portarlo all'altezza del cuore e dire a tutti voi, grazie» ha concluso Veltroni. La platea ha risposto con un lungo applauso in piedi. Veltroni è quindi stato raggiunto sul palco da Rutelli e tra i due c'è stato un lungo abbraccio.

"A France' se ti andasse...". Inizia con il retroscena della telefonata ricevuta da Veltroni l'intervento di Francesco Rutelli dal palco del Palalottomatica di Roma, dove il Pd ha organizzato una festa per celebrare il simbolico passaggio di consegne fra i due. Quaranta minuti dedicati alla città di Roma, quelli spesi da Rutelli che ha parlato a circa 6mila spettatori presenti, "occupiamoci di Roma - ha detto Rutelli - è finito l'epoca in cui lo slogan 'Roma ladrona' veniva rivolta a questa città. Siamo orgogliosi di essere romani e vogliamo andare avanti con passione e strategia". Il candidato al Campidoglio ha poi ricordato il lavoro svolto dall'amminitrazione Veltroni dal 2001 ad oggi: "Ringrazio il sindaco Veltroni e lo faccio da cittadino perché il punto nodale, forte e il lascito profondo della sua gestione è stato proprio puntare sulla coesione sociale e sulla crescita della città". Rutelli ha poi sottolineato come l'attuale sfida al Campidoglio sia "una battaglia non facile. E' sbagliato dare per acquisito il risultato elettorale". Quanto al suo impegno, Rutelli ha promesso alla platea presente che "darò tutto il meglio di me per servire questa città. C'è tanto da faticare ma ne vale la pena, perché questa città è la cosa che più amo dopo la mia famiglia".

da www.partitodemocratico.it

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