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Ancora in alto mare il marchio made in Italy
3.03.2008

Ancora in alto mare il marchio "Made in..."Non si è saputo più niente del regolamento di esecuzione che, in base all’art. 4 della legge n. 350/2003, doveva disciplinare il marchio "made in Italy" sui prodotti alimentari e non alimentari. Probabilmente c’è l’ostitilità della solita UE.

Oltretutto la questione è spinosa dato che moltissimi prodotti alimentari e non alimentari sono fatti con materia prima importata, oppure sono importati componenti o semilavorati che vengono assemblati per ottenere il prodotto finito. Non è raro che venga importato il prodotto finito (o quasi) e poi spacciato per italiano con la semplice operazione di imballaggio ed etichettatura.

La legge sembra che abbia voluto riservare il marchio "a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio nazionale", ma poi ha aggiunto "o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine". Una vera e propria normativa europea sull’etichettatura dell’origine dei prodotti non esiste, c’è soltanto il Regolamento CEE n. 2913/92 che, ai soli fini dell’applicazione della tariffa doganale, fornisce alcune definizioni sull’origine delle merci, ma nulla dispone sull’etichettatura.

Vengono considerate "originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese" e se ne fa un elenco citando i minerali estratti dal sottosuolo, i prodotti agricoli e d’allevamento, quelli della pesca tramite navi battenti bandiera del Paese, eccetera. Poi però il Regolamento comunitario aggiunge che "una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale".

Pertanto, se si farà riferimento alla normativa europea, sarà considerato "made in Italy" anche un formaggio fatto con latte sloveno. Tuttavia, il successivo Regolamento CEE n. 2454/93 ha meglio precisato, sempre con riferimento all’applicazione della tariffa doganale, che non sono sufficienti a conferire l’origine del prodotto alcune lavorazioni o trasformazioni semplici come il cambiamento dell’imballaggio, la lavatura, la riduzione in pezzi, la semplice riunione di parti per costituire un prodotto completo, eccetera.

La questione, secondo l’Unione Nazionale Consumatori, è doppiamente spinosa perché, nonostante i consumatori siano in maggioranza schiacciante favorevoli all’indicazione del Paese di origine sul prodotto, l’Unione europea o, meglio, la burocrazia europea è invece assolutamente contraria perché vi intravede una falla nel progetto di unificazione dei Paesi europei in uno Stato unico, tanto è vero che ha avanzato la proposta del marchio "made in UE", che è ridicolo oggi che i Paesi comunitari sono 25 e al consumatore può essere propinato come europeo un prodotto fabbricato in Bulgaria.

Comunque non si è saputo più niente neanche del marchio "made in UE". L’indicazione dell’origine precisa del Paese europeo sarebbe oltretutto un modo per contrastare la crescente invadenza di prodotti cinesi e dell’estremo oriente, in gran parte importati da aziende italiane che vi hanno stabilito la loro base operativa per risparmiare sui costi. Ma è evidente che a lungo andare, se al consumatore non sarà data la possibilità di scegliere in base all’indicazione dell’origine, l’economia europea potrà essere soffocata dai cinesi.

www.consumatori.it

 

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