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Sessanta fiorini olandesi (di Paola Carini)
16.03.2008
In un approfondito saggio sulle ragioni storiche della progressiva dipendenza nativo-americana dai colonizzatori, Richard White sintetizza con queste parole la situazione: “Sebbene fossero in grado di nutrirsi, vestirsi, costruirsi dimore sicure e confortevoli, gli indiani finirono col fare sempre più ricorso ai bianchi sia per il vestiario che per il cibo…[Q]uesto processo li rese del tutto superflui: una popolazione senza più controllo delle risorse naturali, in uno stato di povertà rafforzato da elargizioni controllate… e soggetta ad una pressione crescente di perdere la propria identità e di svanire”. Il meccanismo di cui parla ebbe un principale fattore scatenante, un ingranaggio che pur avendo un impatto diverso su popolazioni diverse (i gruppi tribali nordamericani erano circa cinquecento) finì col travolgerle tutte, lasciando strascichi pesanti anche tra i nativo-americani di oggi: l’alcol.

Sin dagli albori della scoperta, il continente e le sue ricchezze – vere o presunte – fecero gola sia alle corone europee che se lo spartirono a tavolino, sia a sette religiose perseguitate in patria, sia a gente comune a caccia di fortuna nel nuovo mondo. Questi ultimi, uomini con una notevole intraprendenza commerciale ma, spesso, di pochi scrupoli, costituirono ben presto un gruppo sociale bene identificato: che fossero chiamati coureurs de boi o trappers, questi commercianti di pelli e pellicce divennero la spina dorsale del sistema economico delle nascenti colonie. La Corona Britannica sapeva bene che il commercio poteva essere un ottimo sistema per favorire le relazioni con i gruppi tribali, ma le frodi e le malversazioni ricorrenti la inimicavano agli occhi dei nativo-americani accendendo micce pericolose. In pratica, ogni colonia aveva leggi diverse, peraltro inapplicate, che regolamentavano il commercio e soprattutto proibivano, parzialmente o in toto, la vendita o lo scambio di alcol con gli indiani. I sovrintendenti che la Corona scelse per uniformare la legislazione e renderla efficace non riuscirono a fermare questo traffico e il problema si ripresentò, irrisolto, ai nascenti Stati Uniti. Nel corso dell’Ottocento, sebbene già nel 1802 la legge autorizzava lo stesso Presidente ad “impedire o contenere la vendita o la distribuzione” di alcol tra le tribù, la situazione peggiorò. Benché agenti indiani ed esercito compissero controlli sul traffico legale delle merci, che si trattasse di singoli o di grandi compagnie come l’American Fur Company, le maglie nella legge ne permettevano di fatto l’afflusso massiccio, per non parlare di ciò che sfuggiva del traffico illegale. Nel 1832 il Congresso sentenziò che nessuna bevanda alcolica poteva essere introdotta in territorio indiano, nel 1847 la legge condannava a due anni di carcere chiunque vi vendesse o distribuisse alcol ma i profitti, conclude lo storico Prucha, erano troppo appetibili perché gli sforzi dei controllori potessero avere effetto sui controllati. Di altro parere gli autori di un articolo apparso sulla rivista scientifica American Journal of Public Health, gli studiosi Frank, Moore ed Ames: l’alcol fu impiegato anche nelle relazioni diplomatiche diventando “de facto un elemento di trattativa nel processo di appropriazione delle terre tribali”. In sostanza, concludono, nei confronti dei nativo-americani si è “deliberatamente pianificata e messa in atto l’assuefazione ad una sostanza psicotropa per scopi economici e di espansione territoriale”.

Tra il 1820 e il 1826, lungo il corso superiore del fiume Missouri, ben quattro differenti compagnie erano impiegate nel commercio delle pelli, per non parlare della concorrente canadese Hudson Bay Company. Nelle Grandi Pianure il sistema fu lo stesso usato ormai da quasi due secoli: gli indiani fornivano le pelli e le pellicce, e i commercianti le rivendevano al ricco ed esigente mercato europeo. Il castoro, se non fosse stato per il crollo della richiesta negli anni trenta dell’Ottocento, sarebbe definitivamente scomparso anche nel famoso West. Con il depauperamento ambientale crescevano, come nell’est, anche i problemi di alcolismo tra le nazioni tribali. Che la situazione fosse dipinta anche in toni esagerati risulta molto probabile, ma di sicuro l’assuefazione divenne una realtà. Il brandy dei francesi, il rum dei britannici e il whiskey degli americani erano parte integrante dei traffici commerciali che si svolgevano prevalentemente presso i forti o appena al di là dei confini, nel Saskatchewan. L’alcol, oltre che creare dipendenza, uccideva, come uccideva il vaiolo che nel 1837 il battello a vapore St. Peters, di proprietà dell’American Fur Company, portò con sé nella risalita del Missouri sino a Fort Union. Laggiù, hidatsa, mandan, teton dakota, arikara, assiniboine contrassero la malattia. E, come il vaiolo finì col colpire anche popolazioni lontane come i cree, anche l’alcol contribuì a disgregare gruppi tribali che a lungo erano riusciti a tenerlo lontano dalla loro esistenza. Blackfoot, crow, pawnee e arikara avevano saputo contenere sia l’invadenza dei trappers che la profusione di alcolici, ma già dopo il 1840, progressivamente stremati da guerre e malattie e poi rinchiusi in riserve e costretti a dipendere da razioni di viveri governative, anche loro accusarono il colpo. Al commercio di pelli si sostituì lo sfruttamento del legname, ai forti si sostituirono le città, ai bisonti – sterminati per ordine governativo negli anni ottanta del secolo – animali da pascolo; nel 1848 si aprì la corsa all’oro in California (le cui vicende sono raccontate nell’articolo dal titolo “Civiltà”) e anche lo spicchio di continente oltre le Montagne Rocciose rimasto semi-sconosciuto si aprì all’effluvio di coloni e cacciatori di varie fortune. Laddove non esistevano barriere ora si ergevano steccati, confini marcati, come afferma Linda Hogan nella sua autobiografia, “dalle recinzioni appuntite di un’America” la cui Storia è diventata per i nativo-americani la vera malattia: “La Storia, come la geografia, vive nel nostro corpo, nelle profondità midollari…È registrata laggiù, immagazzinata in solchi, vie, sinapsi… Quelli di noi che per un colpo di fortuna sono scampati al genocidio, lottano contro un corpo e un animo spezzati. Molti altri ricordano il terrore nell’intimo, poiché la Storia è presente in ogni nostra cellula, la quale discende a sua volta dalle cellule dei corpi odiati, espulsi, affamati e uccisi dei nostri antenati”.

L’alcol finì con l’avere una diffusione pandemica tanto da costringere coloro che lo avevano permesso a legiferarne delle restrizioni. L’assuefazione fu più rapida tra popolazioni non abituate al suo consumo, come furono rapide ad uccidere le malattie degli europei a cui esse non erano mai state esposte, e un certo ruolo sicuramente lo giocò l’imitazione del comportamento alcolista che avevano i commercianti. Eppure bevande fermentate erano consumate nel sudovest degli attuali Stati Uniti, mentre sostanze psicotrope erano largamente impiegate in contesti religiosi tra le popolazioni del resto del Nord America, quindi esisteva la consapevolezza degli effetti particolari che certe sostanze potevano indurre.
Forse, quando tutto iniziò, per i nativo-americani l’alcol aveva lo stesso significato dei sessanta fiorini d’oro che gli olandesi diedero in pagamento agli “indiani” per l’acquisto dell’isola che divenne Manhattan, cioè nessuno.
Chi mai avrebbe potuto comparare dei pezzi di metallo luccicante ad un sistema di acque dolci e salate, a flora e fauna? Chi mai avrebbe potuto dare valore ad un liquore che non faceva che obnubilare il cervello?
Due concezioni, due percezioni, due sistemi di valori opposti. La differenza è tutta qui.

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