12.04.2008
Biocarburanti, il rimedio peggiore del male Alberto Castagnola, 11 aprile 2008, 14:01 Il Fatto Mentre l'Unione europea avverte che sull'Africa sta per abbattersi uno "tsunami umanitario" a causa dell'impennata dei prezzi dei generi di prima necessità - allarme lanciato anche dal direttore generale della Fao - il primo ministro britannico, Gordon Brown ha messo in guardia da scelte come quella di impiegare cereali per il "biofuel" invece che per sfamare la gente e ha chiesto che la questione abbia la priorità massima al vertice del G8 di luglio a Tokyo... La prima decisione venne presa dal Presidente Bush che annunciò, come misura di vago sapore ambientalista e come inizio della liberazione dalla schiavitù del petrolio, il ricorso massiccio alla produzione di etanolo dalle piante di granturco, largamente presenti nelle grandi pianure cerealicole americane. L'alternativa era scelta in realtà sotto la pressione della situazione delle previsioni sul "picco" del petrolio, cioè delle analisi che indicano nel 2012 l'anno in cui le estrazioni raggiungeranno il loro livello massimo, in quanto le riserve di petrolio non ancora estratto e le previsioni concernenti le eventuali scoperte di nuovi giacimenti non permettono di garantire nei prossimi anni un rifornimento capace di soddisfare una domanda rapidamente crescente (alimentata in particolare dalla crescita della Cina). L'analisi più recente in materia (4 febbraio 2008) è un rapporto della Citibank secondo il quale, malgrado la presenza di 175 grandi programmi di trivellazione che entreranno in funzione nei prossimi quattro anni, l'estrazione di petrolio dal 2005 si è praticamente stabilizzata intorno agli 85 milioni di barili al giorno e avrà difficoltà ad aumentare.
Evidentemente questi dati sono ritenuti molto attendibili dagli Stati industrializzati se la Commissione Europea ha emanato il 23 gennaio 2008 una direttiva in base alla quale i paesi europei dovranno adottare misure adeguate per sostituire il 10% del carburante usato dai mezzi di trasporto con combustibili provenienti dalle piante. Il provvedimento impone che la produzione di biocarburanti non deve causare la distruzione di foreste primarie, di terreni tradizionalmente destinati al pascolo e di zone umide; in sostanza dovrebbero essere utilizzati solo terreni già coltivabili e quindi nasce la possibilità di una concorrenza con la produzione alimentare.
E' quindi nel settore agricolo che questa svolta politica ha avuto degli effetti molto rilevanti e non certo positivi, mentre i danni all'ambiente sembrano essere ancora più gravi di quelli causati dalle emissioni di anidride carbonica provenienti dal traffico su strada. In effetti, anche prendendo in considerazione le fonti a più alta produttività , come le piantagioni di canna da zucchero delle savane nel centro del Brasile, esse creano un debito di carbonio che richiede 17 anni per essere restituito. La fonte peggiore, palme da olio piantate distruggendo foreste tropicali, produce un debito di carbonio che richiede circa 840 anni per essere riprodotto. Perfino quando si produce etanolo da un granturco cresciuto su terre arabili "lasciate in riposo" (dette "set aside" in Europa e "riserve di conservazione" negli Stati Uniti, e concepite in genere per regolamentare le produzioni agricole in modo da non deprimere i redditi degli agricoltori), sono necessari 48 anni per ripagare il debito di carbonio. In sostanza, poiché dovremmo ridurre fortemente le nostre emissioni di carbonio proprio in questo periodo, in realtà l'effetto complessivo dei raccolti per produrre carburanti è quello di rendere ancora più gravi le modifiche al clima che si registrano oggi.
Per questo motivo, alcuni esperti suggeriscono di utilizzare per la produzione di biocarburanti soltanto i residui dei raccolti (foglie, fusti, piccoli rami), in modo da non incidere sulle terre arabili. Purtroppo occorre tener conto del fatto che queste parti delle piante rappresentano un nutrimento essenziale per garantire la produttività dei suoli. Secondo uno studio recente, la rimozione di questi residui delle coltivazioni moltiplicherebbe di 100 volte l'erosione del suolo. Se poi si tenta di ricostituire la qualità dei terreni distribuendo fertilizzanti chimici, secondo il Premio Nobel Paul Crutzen si produce nei processi industriali per fabbricarli ossido di idrogeno, un gas 296 volte più potente dell'anidride carbonica. In conclusione, a parte il caso di utilizzo di grassi già usati a basso costo, non esiste alcun sistema per fabbricare dei biocarburanti sostenibili per l'ambiente.
Infine, non dobbiamo dimenticare che il tentativo in corso di sostituire il petrolio con dei biocarburanti ha già prodotto una serie di gravi danni relativi all'alimentazione delle popolazioni più povere. In Messico, poche settimane l'annuncio del presidente americano, il prezzo di vendita del granturco era raddoppiato, incidendo fortemente sui cibi tradizionali locali. In Benin il governo, su suggerimento del Fondo Monetario, sta cercando 3 milioni di ettari di terre coltivabili per destinarli a piantagioni di palme da olio e jatropha per la produzione di biodiesel e di canna da zucchero e manioca per ottenere etanolo. In Brasile si punta sul cocco babacu per produrre il biodiesel. Gli effetti negativi sulle disponibilità e sui prezzi degli alimenti sono già stati ampiamente documentati.
Le strade da seguire sono ben altre e riguardano le emissioni di Co2 di auto e industrie dei paesi ricchi, da ridurre in misura ben maggiore (almeno 10 volte di più) di quanto previsto dall'accordo di Kyoto, peraltro ancora spesso non rispettato, e con urgenza, se veramente si vogliono evitare danni ambientali tali da modificare la superficie e l'atmosfera del pianeta in modo irreparabile.
Carlo gawen52@yahoo.it
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