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20 anni fa: quando Rocco Chinnici fu assassinato forse il .....
4.08.2003

Quando Rocco Chinnici fu assassinato forse il potere mafioso ed i suoi molti complici pensarono di aver vinto una decisiva partita. Quell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo così cruentemente decapitato, avranno calcolato mandanti, esecutori e beneficiari della strage, sarebbe stato ridotto alla resa.

Ma Rocco Chinnici non era morto.

Pensarono che quel massacro fosse un messaggio inequivocabile, che metteva la parola fine a tante cose, oltre che alla vita di Rocco Chinnici, di Mario Trapassi, di Salvatore Bartolotta, di Stefano Li Sacchi.

Ma Rocco Chinnici non era morto.

Perché Rocco Chinnici era vivo nelle teste e nei cuori di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Giuseppe Di Lello, di quello che ben presto sarebbe diventato per tutti e per sempre "il pool antimafia".

Dunque Rocco Chinnici non era morto.

Perché Rocco Chinnici era risorto in un silenzioso, ascetico, fragile anziano magistrato di Firenze che sentì la chiamata e volle andare a Palermo a prenderne il posto, a proseguirne la lotta.

Cosicché Rocco Chinnici non era morto.

Oh, amici, quante volte ci siamo detti che i buoni non muoiono del tutto, ma vivono nell'umanità tutta che ne prosegue la lotta, che ne raccoglie il testimone, che ne serba memoria.

E quante volte ci siamo detti che questo è insieme vero e falso. E che sia vero lo prova anche il piccolo fatto che tu stai leggendo queste righe, che io le ho scritte, ed entrambi, anche se diciassette anni ci separano da quell'omicidio, quel nome e quella figura sentiamo viva e presente. E che non sia vero ce lo dice il fatto roccioso e tremendo, ineludibile, che quella vita umana, quelle vite umane, sono state soppresse, annientate per sempre.

Ma chi legge di nuovo le parole di Chinnici gli dà la sua voce e così lo fa vivere ancora, allontana l'oblio che tutto divora. Ma chi prosegue la lotta di Chinnici, e di Terranova e di Costa, e di Falcone e di Borsellino, e di tutti gli altri caduti nella lotta contro la mafia, ne salva e prolunga un frammento di vita, le idee, la luce.

*****

Qui presentiamo un ricordo di Rocco Chinnici scritto da Paolo Borsellino come prefazione ad una raccolta di suoi interventi. Al testo di Borsellino premettiano una breve notizia biobibliografica su Rocco Chinnici.

*****

Nato a Misilmeri (Palermo) il 19 gennaio 1925, laureato in giurisprudenza nel 1947, entrato in magistratura nel 1952 con destinazione al Tribunale di Trapani.

Dal 1966 a Palermo presso l'Ufficio Istruzione del Tribunale, come giudice istruttore. Nel 1979, già magistrato di Cassazione, è promosso Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo. Nel suo lavoro istruttorio è coadiuvato da un gruppo di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: è la nascita del pool antimafia che porterà al maxiprocesso alla mafia. All'attività giudiziaria affianca interventi a congressi e convegni, ed incontri nelle scuole e con i soggetti della società civile per formare una cultura della legalità. E' assassinato dalla mafia il 29 luglio 1983; insieme a lui muoiono anche il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta, il portiere Stefano Li Sacchi.

Una raccolta di alcuni suoi interventi è il volumetto - 'L'illegalità protetta'. Attività criminose e pubblici poteri nel meridione d'Italiaì, La Zisa, Palermo 1990.

Il volume, curato da Francesco Petruzzella, comprende una commossa prefazione di Paolo Borsellino, un'introduzione di Petruzzella, quattro interventi di Rocco Chinnici, ed in appendice nove testi che lo commemorano (rispettivamente del Centro Impastato, della segreteria regionale del Pdup, della segreteria provinciale del Sindacato italiano unitario dei lavoratori di polizia -Siulp-, della segreteria regionale Fidac-Cgil, della federazione unitaria regionale Cgil-Cisl-Uil, del cardinale Salvatore Pappalardo - l'omelia tenuta durante i funerali delle vittime della strage di via Pipitone Federico - di un gruppo di studenti palermitani, del Consiglio superiore della magistratura, della redazione della rivista "Segno").

*****

Paolo Borsellino: dalla prefazione a 'L'illegalità protetta'

Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.

Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall'interno, come poi fu possibile nella stagione dei "pentiti".

Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l'anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali.

Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d'Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l'inadeguatezza della legislazione: c'è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza.

Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest'uomo, che aveva, come una volta mi disse, la "religione del lavoro".

Egli era divenuto, alla fine degli anni '70, dirigente dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta "guerra di mafia" e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti.

A capo della struttura giudiziaria più esposta d'Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.

Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto "pool antimafia". Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell'arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla "palude" al nostro lavoro.

Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i "suoi" giudici. Per suo merito, nell'estate del 1983, si erano realizzate, pur nell'assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l'opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall'altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.

Un sereno spirito di sacrificiò animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell'altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli "sapeva" che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le sue conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l'altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall'urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato.

Chi gli visse accanto in quell'ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell'istruzione di quel procedimento, allora detto "dei 162", che costituì l'embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale.

Gli era così chiara l'unitarietà e l'interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connesione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l'ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l'esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori.

Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare.

Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative.

Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l'esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni "successo" giudiziario nei suoi confronti.

Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento.

Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all'inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, "volgare delinquenza", ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l'averne intuito la profonda essenza e pericolosità.

(...)

*****

[Questo testo è estratto dalla prima parte della prefazione di Paolo Borsellino al libro di interventi di Rocco Chinnici 'L'illegalità protetta. Attività criminose e pubblici poteri nel meridione d'Italia', La Zisa, Palermo 1990].

da www.antimafiaduemila.com

 

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