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Destra, sinistra e liberismo (Michele Salvati su corriere.it)
5.05.2008
Semplificando molto, un partito di centrodestra solitamente si colloca, e non di rado oscilla, tra due polarità ideologiche. Una polarità liberal- conservatrice, tuttora preoccupata degli effetti destabilizzanti della democrazia, ma figlia del razionalismo e dell'individualismo del secolo dei Lumi.

E una polarità tradizionalistica, figlia della reazione all'Illuminismo: una polarità nella quale la società (comunità) prevale sull'individuo e lo stare insieme è assicurato dall'autorità e dalla tradizione, da «Dio, Patria e Famiglia ».

Gli esempi abbondano, da George W. Bush a Nicolas Sarkozy, anche se la miscela più efficace di liberismo conservatore e di tradizionalismo patriottico resta quella di Margaret Thatcher.

Simmetricamente, un partito di centrosinistra si colloca e oscilla anch'esso tra due polarità, dopo l'esito tragico dell'esperienza comunista: una polarità liberal-progressista, in cui la democrazia non induce preoccupazione e il messaggio liberale è inteso come effettiva libertà di perseguire i propri piani di vita per il maggior numero di individui; e una polarità socialdemocratica, in cui l'accento è posto non sugli individui e i loro diversi piani di vita, ma su soggetti collettivi che si suppongono relativamente omogenei — classi, «blocchi sociali» —, soggetti rappresentati, organizzati, talora costruiti dal sindacato e dal partito. Anche qui gli esempi abbondano: Tony Blair e Zapatero sono vicini alla polarità liberale e la socialdemocrazia tedesca, che con Schröder vi si era avvicinata, ora sta tornando verso quella socialdemocratica con il suo nuovo leader Beck.

L'Italia non fa eccezione a questa grezza tassonomia. Partiamo dal centrodestra. Come non avvedersi che questo è passato dal messaggio liberale del Berlusconi prima maniera (almeno fino alle elezioni del 2001) al messaggio prevalentemente tradizionalistico delle elezioni di quest'anno?

Il vero manifesto elettorale è stato il libro di Tremonti, «La paura e la speranza», in cui è immediato scorgere accenti anti individualistici e anti illuministici (e dunque anti liberali, anche se l'autore li chiama anti mercatisti) che sembrano presi di peso da Renan, se non da De Maistre. Bossi, se si eccettua la sua fase ormai lontana di critica alle gerarchie ecclesiastiche, ha sempre sostenuto un messaggio neotradizionalista: la sua tradizione, la Padania, è totalmente inventata, ma così sono anche altre tradizioni, e tutte, all'inizio.

E Fini? Il suo civile messaggio di investitura come presidente della Camera è imbevuto di tradizionalismo: che poi la Nazione di Fini non sia quella di Bossi creerà certo problemi, ma ciò non toglie che per entrambi il riferimento alla comunità, al territorio, al Blut und Boden, sia molto forte.

Berlusconi, dall'alto, non bada a queste sottigliezze e li lascia dire.

E il centrosinistra? Il messaggio con cui è nato il Partito democratico è un buon esempio di liberalismo progressista, con due significative qualificazioni. La prima, dovuta alla storia del movimento operaio di cui il Pd è l'erede, è la grande attenzione e cautela nei confronti del sindacato.

Per un liberale puro e duro il sindacato è un gruppo di interesse come gli altri; non può essere così per chi viene dalla tradizione socialista e ricorda il grande movimento di emancipazione di cui il sindacato è stato (lo è tuttora?) l'espressione organizzata. La seconda è dovuta all'influenza di Margherita, un partito a forte prevalenza cattolica: attraverso di essa, attraverso la dottrina sociale della Chiesa, sono entrate nel patrimonio genetico del nuovo partito significative tracce tradizionalistiche.

E vi sono entrate anche per l'intransigenza con cui Benedetto XVI ha ripreso la polemica contro l'individualismo liberale e il «relativismo ». Insomma, si tratta di un liberalismo meno limpido di quello di Blair o di Zapatero.

Nella vittoria del centrodestra hanno giocato tanti fattori, e soprattutto il giudizio dato dagli elettori sull'esperienza del governo Prodi: un'esperienza dalla quale Veltroni non poteva smarcarsi e che non costituiva certo un buon esempio del programma liberale con il quale voleva essere identificato.

Ma anche se gli elettori avessero creduto alla sua sincerità, alla sua voglia e alla sua possibilità di voltar pagina, alla sua intenzione di sciogliere lacci e lacciuoli, di promuovere il merito e abbattere le rendite diffuse ogni dove, è probabile che un messaggio tradizionalistico e difensivo, legato alla protezione dei territori e delle imprese del Paese, sarebbe stato comunque più efficace.

Il messaggio del centrodestra era perfettamente adatto a un Paese che ha «paura», parola chiave del libro di Tremonti. Paura non soltanto della Cina e degli immigrati, ma anche delle riforme necessarie a convivere con successo con la Cina e con gli immigrati: in condizioni di lento declino si aborre dal cambiamento, gran parte dei cittadini stanno abbarbicati alle proprie consuetudini e alle proprie rendite, piccole o grandi che siano.

Senza quelle riforme, tuttavia, il Paese è destinato a declinare ulteriormente: Francesco Giavazzi, sul Corriere di mercoledì scorso, ha perfettamente ragione. E' dunque ad esse — e non a misure protezionistiche — è legata la «speranza », l'altra parola chiave di quel libro.

Passate le elezioni, portato a casa il risultato, speriamo che il governo ne tenga conto.
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