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Alla sinistra del Pd (di Achille Occhetto) |
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8.05.2008
C'è qualcosa di inquietante nel panorama politico che è apparso ai
nostri occhi dopo che i fumi dei fuochi d'artificio della campagna
elettorale si sono depositati sul terreno. Lo spettacolo a sinistra è
desolante.
La duplice sconfitta della cosiddetta "area radicale" e
del progetto riformista moderato del Pd, ci consegna una lacerante
divaricazione tra una sinistra che perde se stessa lungo la strada
del moderatismo e una che si abbarbica alle antiche radici intese non
già come linfa vitale di una rigenerazione ma come feticcio o, ancor
peggio, come mera difesa di piccole rendite di posizione.
Tra questi due poli divaricanti dovrebbe collocarsi una nuova
sinistra. Ma chiediamoci: esiste lo spazio politico ideale per questa
nuova sinistra?
Una cosa è certa: la sinistra arcobaleno non è riuscita a
rappresentare tale esigenza. In verità , non ci ha nemmeno provato.
Sono venuti meno alcuni presupposti - una cultura di governo e
l'accettazione dell'orizzonte ideale del socialismo europeo - che
potevano rendere credibile quel tentativo. L'anelito verso la ricerca
di una nuova frontiera, che ha contraddistinto l'impegno di Sinistra
democratica e di un parte di Rifondazione, è stato contraddetto dai
ritardi e dalle resistenze che di fatto hanno ridotto l'insieme
dell'iniziativa a un mero cartello elettorale. Lo stesso
vagheggiamento dell'opposizione per l'opposizione ha favorito la
macchina micidiale del "voto utile" che ha spinto gran parte degli
stessi elettori di Rifondazione comunista a votare per il Partito
democratico.
In questa commedia degli equivoci è rimasto sconfitto tutto il
centrosinistra, vittima delle reiterate azioni autolesioniste con le
quali i vecchi gruppi dirigenti partitici hanno, in vari momenti e in
vari modi, affossato il "Grande Ulivo". Ora, cosa possiamo fare?
Per debellare il male oscuro che ha paralizzato le diverse coalizioni
di centrosinistra occorrerebbe superare alla radice l'idea nefasta
delle due sinistre, una di governo e l'altra di opposizione. I due
capisaldi - cultura di governo e identità socialista - chiamano in
causa una sinistra che sappia superare la divisione tra riformisti e
sinistra radicale, che sia ferma nei principi, ma di governo.
Una
simile sinistra non sta al governo ad ogni costo, ma non sta nemmeno
ad ogni costo all'opposizione. Svolge il proprio ruolo - quello che
le è stato affidato dai cittadini - con la medesima cultura di
governo.
Tuttavia qualcuno potrebbe ancora obbiettare: al di là delle ragioni
della politica, quali sono le ansie, i problemi, le rivendicazioni
che potrebbero definire, sia pure a grandi linee, lo spazio di una
nuova formazione politica?
Credo che per rispondere in modo compiuto - e non solo politicistico -
a questi interrogativi, occorrerebbe ridefinire il terreno sociale
ed economico sul quale si manifestano le contraddizioni del nuovo
millennio. Ciò richiederebbe, come ciascuno può ben comprendere, una
ricerca di ampio respiro. Tuttavia non intendo esimermi dal
sottolineare alcuni temi di scottante attualità che contraddicono la
cultura dominante neoliberista. Quella cultura che è la matrice di
tutte le teorie tendenti a dichiarare morto e sepolto il mondo del
lavoro salariato, inesistenti le contraddizioni - vecchie e nuove -
interne al modello di sviluppo capitalistico, assurdamente
palingenetiche le richieste di un rinnovamento radicale delle societÃ
attuali, al punto tale da rendere obsoleta, se non risibile,
l'esistenza stessa di una sinistra alternativa.
In realtà tutto ci dice che siamo di fronte a una nuova fase critica
del capitalismo su scala mondiale. Mutano i soggetti e la forma delle
contraddizioni, ma rimane la sostanza della critica.
Prima considerazione. Il mondo del lavoro.
I dati parlano chiaro e in modo agghiacciante. Quando Marx era
celebrato, copiato, vezzeggiato e usato da quasi tutta la cultura
mondiale, i lavoratori salariati erano solo cento milioni. Adesso che
l'intellettualità , cosiddetta moderna, si fa beffe dell'idea stessa
dell'estensione del lavoro salariato, i lavoratori salariati sono
passati da cento milioni a due miliardi.
Seconda considerazione. Di questi due miliardi una parte rilevante è
costituita da un miliardo e mezzo di nuovi lavoratori globali aventi
diritti e salari minimi e mezzo miliardo di lavoratori dei paesi
sviluppati aventi diritti e salari elevati.
Terza considerazione. Si
ripropone in una forma nuova la tesi di Marx sulla funzione
dell'"esercito industriale di riserva" (i disoccupati) nel
determinare contraddizioni interne al mondo del lavoro e indebolire
l'azione degli occupati per più alti salari e per la difesa dei
diritti sindacali.
In tale contesto, la stessa flessibilità , oltre a trasformare la
precarietà nel lavoro in precarietà di vita, contribuisce alla
frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme
associative.
Questa immane lotta tra i poveri su scala planetaria reca con sé
nuovi conflitti sociali all'interno del popolo, determina una
concorrenza cieca e senza esclusione di colpi di cui si alimentano
tutte le nuove contraddizioni: da quelle legate agli attuali biblici
movimenti migratori, ai temi stessi della sicurezza, su cui si fonda
la scissione, anche nel voto, dello stesso operaio, tra la sua figura
di produttore (che risponde ai sindacati) e quella di cittadino (che
sente il richiamo della destra sui temi dell'immigrazione e della
sicurezza).
Un altro terreno su cui mutano i soggetti e la forma delle
contraddizioni, ma non la sostanza della critica all'attuale stato di
cose, è quello ecologico. Anche questo è un tema che è diventato
banale, fino a sfumare in un conformismo riformistico che si infrange
impotente contro le alte scogliere delle cittadelle fortificate
dell'attuale modello di sviluppo. Ciò avviene perché non si è ancora
compreso che occorre ripensare la nozione stessa di progresso, dal
momento che viviamo le laceranti contraddizioni tra la necessità di
uno sviluppo allargato all'intera umanità e l'esigenza della difesa
della natura e dell'equilibrio ecologico del pianeta; tra tecnologia
e occupazione; tra internazionalizzazione dei processi produttivi e
accentramento delle sedi di decisione e di controllo; tra
sovranazionalità e particolarismi e conflittualità etniche e
religiose.
E che dire del tema capitale su cui è nata la sinistra mondiale,
quello della giustizia? Ormai tutti possono vedere che la più grande
ingiustizia che sconvolge la comunità umana è il divario pauroso tra
la ricchezza di pochi e l'abissale povertà della maggioranza degli
uomini. Come non cogliere che tutto ciò non lo si risolve con la
carità redistributiva - che pure è insufficiente - ma chiama in causa
l'organizzazione economica e sociale, i modelli produttivi, di vita e
di consumo, dei paesi più ricchi?
Chi rappresenta tutto questo? Chi darà voce al mondo dei salariati,
dei precari, ai nuovi soggetti figli dei drammi del nostro tempo?
Ho visto che alla notizia della scomparsa della sinistra "radicale"
dal Parlamento, alcuni commentatori si sono chiesti attoniti: ma ora
chi rappresenterà le tensioni sociali? Correremo il rischio di
manifestazioni violente? Il problema è ben più ampio. C'è da
rappresentare un universo in movimento. Questo universo plurale e
articolato non può essere compiutamente espresso né dalla sinistra
radicale né da un riformismo pallido e appannato. Ci vuole una forza
animata da una effettiva cultura di governo. Ma che abbia nello
stesso tempo il senso e la dignità di un progetto autonomo.
Ho più volte affermato di non avere alcuna nostalgia conservatrice
per la vecchia sinistra e di non avere nemmeno alcuna prevenzione
verso la formazione di un nuovo partito democratico, che si
inscrivesse nell'area della sinistra, capace di fondere, attraverso
una effettiva contaminazione ideale e politica i diversi riformismi
della tradizione politica italiana. Ma a mio avviso si è scelta una
scorciatoia sbagliata. Sarebbe stato meglio meno ma meglio.
Quella ipotesi infatti, a mio parere, doveva essere favorita dal
formarsi di una grande coalizione - soggetto politico - nella quale
ogni componente, pur mantenendo, almeno all'inizio, la propria
identità di partenza, fosse tuttavia ispirata dalla medesima tensione
ideale e morale verso una politica profondamente rinnovata.
Era l'idea della Carovana. Il "Grande Ulivo" incominciò a incarnare
quella idea. In quella occasione uomini e donne che il muro
ideologico della guerra fredda aveva divisi si ritrovarono dalla
stessa parte, dando vita ad una effettiva esperienza unitaria di base.
La rottura di quella esperienza perpetrata nel nome del primato dei
vecchi partiti è stata un vero e proprio delitto politico. La
formazione di un partito democratico che è rimasto isolato nel campo,
ormai deserto, del vecchio centrosinistra ha fatto il resto. Rimane
tutto intero il problema della rappresentanza politica di grandissima
parte delle tensioni e delle aspirazioni che attraversano la nostra
società .
In questa situazione abbiamo davanti a noi due strade da percorrere.
La prima è quella di dar vita, tra il Pd e le componenti residuali di
una vecchia sinistra radicale, ad una nuova formazione politica che,
muovendosi all'interno dell'orizzonte ideale del socialismo europeo,
vada oltre le antiche appartenenze. Si tratterebbe di un'opera
immane, che oltretutto sarebbe costretta a muoversi contro il senso
comune semplificatorio che sta infuriando alla cieca sul sistema
politico italiano. La semplificazione - da me più volte invocata -
rispetto al proliferare di partitini che non hanno alcuna ragione
storica al di fuori dell'autovalorizzazione dei loro apparati, è un
conto; altro conto è l'autentica rappresentanza di un imperativo di
riscatto morale e ideale che sale da una parte rilevante delle
moderne società sviluppate. Se non ci poniamo il problema di questa
ineludibile "rappresentanza", tutto il sistema politico italiano
rischia di precipitare in una crisi irreversibile e la stessa
gigantesca opera compiuta dopo la Liberazione da Togliatti e da De
Gasperi per far uscire le masse popolari italiane dal sovversivismo
endemico di cui erano ancora prigioniere, verrebbe vanificata.
Queste osservazioni mi suggeriscono l'ipotesi di un modello
flessibile, insieme unitario e articolato. Un modello che si proponga
l'obiettivo di costruire un nuovo centrosinistra.
Qualcuno ha anche suggerito di riorganizzare la sinistra di cui sto
parlando all'interno del Pd.
Non mi faccio il segno della croce: anche questa seconda ipotesi
potrebbe essere presa in considerazione. Tuttavia è da escludere un
innesto di sinistra all'interno dell'attuale impostazione
organizzativa, oltre che ideale e politica, del Pd. Anche in questo
caso occorrerebbe un modello flessibile, insieme unitario e
articolato. Qualcosa che sia una sintesi più alta tra l'attuale
Partito democratico e l'esperienza del "Grande Ulivo". Ma anche tale
ipotesi richiederebbe un ripensamento collettivo delle prospettive
strategiche dell'insieme dell'area di centrosinistra.
Lo stesso Pd, o ha un'ipotesi che riguarda l'insieme delle forze di
centrosinistra, oppure da solo, come si è visto, non va da alcuna
parte. Il gruppo dirigente del Pd, invece di pensare di reclutare,
dopo la comune sconfitta di tutto il centrosinistra, piccole
pattuglie di sbandati, dovrebbe avere la forza politica e morale dei
momenti storici cruciali. Una forza che non si affida alle rese dei
conti dentro la nomenclatura, che lasciano il tempo che trovano, ma
che si pone il problema effettivo di un ripensamento generale.
Ciò comporterebbe la decisione di dar vita a una seconda costituente
del Partito democratico e del nuovo centrosinistra.
Tuttavia in entrambi i casi, sia in quello dell'immediata formazione
di un nuovo partito di sinistra, sia in quello di una flessibile e
articolata ricostruzione del "Grande Ulivo", non si potrà prescindere
dalla presenza di una grande sinistra democratica e popolare.
da L'Unità del 8 maggio 2008
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