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L'addio di Hillary a Washington
10.06.2008

L'addio di Hillary a Washington La Clinton ora sostiene Obama La via comincia ora a sembrare molto più diritta. Niente più curve né tornanti né ostacoli degni di nota. Niente più nebbia né fondo sconnesso. Tutto liscio fino al 4 di novembre. Soltanto una strada lunga e liscia, che va risoluta incontro all’orizzonte, incontro al futuro ormai prossimo. Incontro alla Casa Bianca. Archiviate le primarie sull’America dei Democratici alla fine sventola un’unica bandiera. E’ rimasto in piedi un solo uomo. La previsione si è fatta certezza. Tra i giornali e le radio, tra le tv e i soliti commenti rilasciati dai soliti esperti. Vince Barack. Ed è Hillary a finire giù dalla torre.

Sedici mesi sono trascorsi. Migliaia di miglia sono state percorse. Milioni di voci sono state ascoltate. Il viaggio finisce qui perché presto ne inizierà un altro. All’America che ha scelto Barack e John McCain serve un 44 esimo presidente. Soprattutto, ha bisogno di un giorno nuovo, e migliore. "La senatrice Hillary Clinton ha fatto storia in questa campagna" scandisce Obama nel suo discorso della vittoria. Non solo perché è una donna che ha fatto ciò che a nessuna prima di lei era riuscito, "ma perché è un capo che ispira milioni di americani." Con la forza, il coraggio, la dedizione. Eppure, è lei il candidato perdente.

E così John Titor aveva torto. Sedicente crononauta e leggenda vivente del web in appena pochi mesi di onorata, fantomatica attività, questo misterioso personaggio si era dato alla rivelazione spicciola, facendosi forte di una personale, vantata provenienza dal futuro. Tra gli inizi di novembre del 2000 e la fine del marzo 2001 aveva sconvolto innumerevoli utenti di altrettanti forum di libero accesso con le sue incredibili storie di viaggiatore nel tempo. Il 2008 degli Usa visto da Titor si sarebbe per l’appunto dovuto aprire con una Casa Bianca dipinta di rosa. Con una donna al vertice dell’ultimo colosso mondiale. Con Hillary, la vincitrice assoluta. Ma così non può più essere, e così non sarà.

Della accanita disputa per la nomination resta ormai ben poco. C’è l’incontro notturno tra i due rivali, confermato da un comunicato congiunto stilato dai rispettivi comitati promotori. Con netto ritardo rispetto agli echi già giunti grazie all’autorevolezza delle colonne del New York Times e al fiuto inarrestabile dei mastini di Cnn. Barack che bussa alla porta di casa Clinton a Washington. "Fruttuosa discussione a proposito dell’importante lavoro che è necessario intraprendere per vincere in novembre" recita la nota resa pubblica. Una riunione importante, dunque. E circoscritta a pochi fedelissimi. I due insoliti leoni d’America, dunque, l’afroamericano e la donna, circondati soltanto dai consiglieri di peso.

Alla fine Hillary si è fatta da parte. Ha perso, è ora di riconoscerlo. Ed è tempo per lei di appoggiare il vincitore. Se non puoi batterli, fatteli amici. Dalla serata di venerdì, tutto il quartier generale di Arlington, Virginia, è dunque in libera uscita. E’ il dopo-annuncio, l’attimo dopo la resa. Quello delle lacrime di chi ha trascorso sedici mesi nella mischia. Sul capo di Barack ormai spicca la corona. E la responsabilità pesante di abbattere John McCain, i suoi 72 anni di beniamino-patriota-eroe di guerra, i venti e più anni di vita trascorsi tra gli acuminati ingranaggi della macchina del potere.

La nomination ufficiale di Obama non arriverà prima della fine di agosto, prima dell’attesa convention di Denver. Ma l’America da oggi ricorda un po’ meglio le sue origini. Un crogiuolo di razze, lingue, culture. Un esperimento unico, impossibile da replicare altrove. Nazione fatta di nazioni. Ma anche gigante in ansiosa attesa di imparare l’umiltà. E che comincia ad avvertire un pesante senso di ripiegamento su sé stesso. Spera nel cambiamento, l’America di questi giorni. Forse spera anche in Obama. Frattanto, Hillary ha finalmente appreso la sua di lezione.

Lo ha fatto sulla pelle. Ha dovuto farlo perché non è stata in grado di impersonare la novità, e si è fatta scivolare il futuro via dalle mani. Nonostante 18 milioni di consensi raccolti. "Barack è un amico" ha detto la Clinton. E molti già sospettano si tratti di una manovra tesa ad assicurare alla combattiva senatrice la poltrona della vice-presidenza. Forse sarà l’ombra di Obama. Ma lui non sembra averci nemmeno pensato su. Nei suoi piani immediati c’è Michele, sua moglie. C’è la loro cena fuori. Solo lui e lei.

Nessuna Clinton all’orizzonte. Non ancora. Non ora. Lei che sembra restare in attesa. Hillary Diane Rodham da Chicago, Illinois. Primogenita di un dirigente tessile e di una casalinga. Nata e cresciuta in una famiglia di solida tradizione conservatrice, tanto da essere coinvolta come volontaria appena sedicenne, nel 1964, nella campagna elettorale del repubblicano Barry Goldwater. Poi il cambiamento. Prima il lugubre annuncio dell’assassinio di Martin Luther King che fa scempio della sua sensibilità di adolescente. Poi l’incontro con il professor Alan Schechter, artefice della sua adesione al Partito democratico.

Una laurea in Scienze Politiche conseguita dopo sette minuti di pubblici applausi. Roba da menzione nelle cronache di Associated Press. A Yale per i corsi della Scuola di Legge, si interessa di infanzia, di abusi, di immigrazione. Si impegna attivamente in politica, nella campagna del democratico George McGovern. Consegue una laurea Juris Doctor. E conosce un tale Bill Clinton, che seguirà prima in accademia e poi sull’altare a Fayetteville, Arkansas. Il trasferimento nella vicina Little Rock. La carriera da brillante legale, l’impegno in difesa dei bambini.

Donna dell’anno. Madre dell’anno. Tra i 100 avvocati più influenti del Paese. Una capace di lavorare duro per nobili fini e alti ideali. Ma anche di impegnarsi per Wal-Mart Stores, e per la manifatturiera del cemento francese Lafarge. First Lady d’America e riformatrice del sistema sanitario nazionale. Una senza dubbio capace di far parlare di sé. Tanto che spesso i repubblicani utilizzarono la sua impopolarità come leva per mandare in pezzi il gradimento democratico nel paese. La prima First Lady chiamata alla sbarra a testimoniare di fronte al gran jury federale.

Una deposizione, la sua, riguardante l’improvvisa riapparizione nel gennaio 1996 di alcuni documenti importanti connessi con l’affaire Whitewater, carte che scottavano improvvisamente quanto misteriosamente scomparse tempo prima. La Hillary oggetto di investigazioni riguardanti la natura dolosa degli incendi scoppiati presso l’ufficio viaggi della Casa Bianca. La Prima Donna d’America coinvolta nelle indagini sulle sospette circostanze della morte del legale Vince Foster. E sull’uso improprio di file segretati appartenenti all’Fbi.

Quella stessa Hillary Rodham Clinton senza macchia, uscita sempre a testa alta dall’aula di tribunale. E di volta in volta prosciolta da ogni accusa. Sta a lei oggi attendere. Sta ancora a lei fare tesoro della lezione. Tirare il fiato, e meditare, e rivedere. Ripercorrere il cammino degli ultimi mesi. La via dell’impegno e della grinta. Quel sentiero in salita che l’ha portata a dare battaglia ad un grande d’America, ad opporsi ad un uomo coraggioso, all’uomo del destino e del cambiamento forse. Senza mai demordere. Fino all’ultimo voto. Perché è così che si batte una signora.

S.P.

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