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Il lago blu (di Paola Carini)
24.08.2008
Di tutta l’abbondanza ambientale del continente appena scoperto, i colonizzatori non sapevano proprio che farsene. A meno che non fosse ricca di legname, di selvaggina o di oro, cosa questa che capitò a Sutter Buttes durante la corsa all’oro in California, la terra americana valeva solamente se poteva essere coltivata. E questo fu ciò che successe effettivamente: centinaia di migliaia di acri vennero acquisiti fraudolentemente dagli Stati Uniti e rivenduti a masse di coloni che premevano sempre più ovest, sempre più assetati di un pezzo di terra e di una nuova vita, spesso ignari del prezzo pagato dagli abitanti originari per la concretizzazione del “sogno americano”.

In quest’ottica di sfruttamento ogni ricchezza che non avesse immediato, visibile riscontro, non valeva niente. Che farsene quindi, di tutti quei fiori di cui la California abbondava? O delle specie erbacee e floreali del Montana? O di quelle usate comunemente dagli ojibwe? Oggi, per motivi puramente commerciali, si va alla riscoperta di piante e fiori esotici poco conosciuti o addirittura sconosciuti, per poterne sfruttare le proprietà farmacologiche o cosmetiche. Un componente di un noto repellente per zanzare, adesso che anche da noi la zanzara tigre è endemica, è il ledum palustris, o rosmarino di palude, il cui decotto, ingerito a tempi opportuni, protegge da tempi immemori gli ojibwe dalle fastidiose zanzare e da altri tipi di insetti che popolano laghi e acquitrini della zona dei Grandi Laghi, le loro terre ancestrali.

Il National Herbarium americano, il registro nazionale delle piante e dei fiori autoctoni, conta decine di erbe usate a scopo curativo dai nativo-americani nella sola California, ovvero quelle di cui è rimasta memoria tra le popolazioni sopravvissute. L’achillea millefolium era usata sotto forma di infuso come analgesico, contro il mal di stomaco e addirittura per la tubercolosi, nonché come impacco per occhi irritati e lividi. La perideridia kelloggii era usata come antiemetico dai kashaya pomo, la bacca del sambucus nigra contro la febbre, mentre per i luiseno era anche un rimedio contro i crampi mestruali. L’erigonum era ottimo contro la piorrea, il dodecatheon hendersonii aveva un effetto blandamente sedativo, il cleome isomeris si mangiava, il ceanothus griseus diventava un ottimo sapone per detergere capelli e corpo. Anche da noi certe piante americane sono entrate nella farmacopea comune: il palmetto del sudest degli Stati Uniti, o serenoa repens, è un efficace controllore dell’ingrossamento prostatico.

Il valore curativo di certe piante è stato riconosciuto e per questo esse sono state, seppur tardivamente, protette, ma la scoperta di altre ricchezze del continente ha portato alla dissacrazione di luoghi nativo-americani e ad uno scossone all’ecosistema notevole. In questa rubrica si è parlato varie volte di sfruttamenti minerari o militari di varie parti del paese, ma esiste un caso, eccezionale per le sue caratteristiche, di ripristino e rimpossesso di un’area considerata sacra dai nativo-americani, un piccolo lago di origine vulcanica nel cuore della catena delle Taos Mountains (nella foto), nel New Mexico settentrionale.

Tolti i casi relativamente recenti di sfruttamento idroelettrico, come ad esempio il sistema di dighe creato nel Quebec a prezzo di una devastazione ambientale possente, per i primi colonizzatori laghi, fiumi, acquitrini non sembravano possedere particolare rilevanza. E infatti per molto tempo il lago degli indiani taos rimase intatto, un ombelico del mondo nelle terre ancestrali chiamate Mawaluna che non importava a nessun bianco. Fino al 1904.

Nella foga ambientalista dei primi anni del Novecento, eredità ottocentesca del primo “ambientalista” americano di nome John Muir che contribuì a far nascere i primi parchi nazionali americani, il Presidente Roosevelt decise di accorpare ad un parco già esistente nelle Sangre de Cristo Mountains anche il piccolo lago dei taos, Blue Lake, e l’area annessa. Fu uno sconquasso.

Pacifici agricoltori discendenti da popolazioni che vi si stanziarono prima dell’anno mille scendendo dall’odierno stato Colorado, i taos videro la loro vita quotidiana e religiosa andare in frantumi. Persa da un giorno all’altro parte della terra su cui conducevano il bestiame, si rifiutarono di perdere anche Blue Lake.

Come per i vicini abitanti autoctoni degli altri pueblo, anche per i taos l’ombelico del mondo, identificato proprio con il lago, è davvero, fisicamente, il luogo della genesi. Da lì emersero gli antenati da mondi stratificati sottostanti in cui vissero in epoche diverse finché non diventarono quello che sono oggi, taos. Lì ritornano le anime dei trapassati, perchè lì è il luogo della loro origine. Tutto scaturisce e tutto ritorna a Blue Lake, secondo i taos, e con questa credenza non potevano certo rimanere inermi davanti alla possibilità che lo portassero via.

Negli anni venti, grazie anche alle crescenti simpatie verso gli “indiani pueblo” e alla popolarità acquisita per le visite di personaggi famosi dell’epoca, la battaglia per riconquistare Blue Lake continuò. Negli anni quaranta vi fu anche il pericolo di perforazioni minerarie, ma la situazione non mutò fino agli anni sessanta, quando le pressioni pacifiche sia dei taos che dei loro sostenitori all’interno della Casa Bianca non “costrinsero” Richard Nixon a firmare, nel 1970, un atto di restituzione senza vincoli del Blue Lake e dell’area circostante.

Sessantasei anni dopo essere stato sottratto ai taos, Paw’ia, il lago, era tornato libero.

Non è possibile visitare Blue Lake, non ci si può incamminare per una piacevole escursione tra i boschi; l’area è vietata a tutti.

Esistono solo fotografie aeree di questo lago, e pare che sia un piccolo cerchio blu immerso nel verde delle conifere dalle profondità incommensurabili.

Proprio come un ombelico del mondo.

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