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Il declino dell'economia italiana
28.09.2008

IL "DECLINO" DELL'ECONOMIA ITALIANA: SOLO UN PROBLEMA DI OFFERTA? di Paolo Piacentini, Stefano Prezioso Nel biennio 2006-2007 l’export italiano è tornato a crescere a tassi lievemente superiori a quelli registrati dal commercio mondiale. Nel quinquennio precedente, invece, si era assistito ad una situazione opposta, che aveva alimentato l’ampio dibattito sul "declino" italiano. Sebbene la recente ripresa dell’export segnali una rinnovata vitalità di almeno una parte del sistema produttivo, ciò non si è tradotto in un apprezzabile incremento di prodotto (e produttività). Sempre in riferimento all’ultimo biennio sono inoltre emersi dei rilevanti segnali che mostrano come anche il lato della domanda interna sia soggetto a crescenti difficoltà.

Le brevi considerazioni espresse di seguito tentano di cogliere l’interazione fra fattori rilevanti, sia supply-side che demand-side, piuttosto che concentrarsi su un’unica ipotesi causale.

Senza pretesa di voler aggiungere nulla all’ampio dibattito intorno al "declino" italiano, una maniera, a nostro avviso, assai efficace per fare il punto della situazione consiste nel ricorrere ad uno strumento analitico - la c.d. funzione del progresso tecnico (FPT) - originariamente proposta da N.Kaldor.

Il grafico 1, che si riferisce al business sector dell’economia (industria e servizi di mercato), è costruito ponendo in ascissa il rapporto capitale/lavoro (intensità capitalistica) mentre in ordinata vi è il rapporto valore aggiunto/lavoro (produttività) su di un arco temporale significativo. E’ così possibile ottenere un’indicazione, in termini di creazione di valore aggiunto incrementale, del processo di accumulazione dell’economia.

Nel grafico 1 è riportata un’altra linea, più scura, che è la bisettrice, ovvero il luogo dei punti nei quali le due variabili in oggetto – l’intensità capitalistica e la produttività – crescono al medesimo saggio (ed il rapporto capitale/prodotto è quindi costante). La bisettrice è una sorta di benchmark rispetto al quale misurare la performance del processo di accumulazione di un’economia. Precisamente, qualora le coppie di punti effettivamente riscontrate nei singoli anni tendano a collocarsi al di sopra della bisettrice, si è in presenza di rendimenti crescenti dei tassi di accumulazione; nel caso opposto, prevale una situazione di rendimenti decrescenti (la produttività cresce meno che proporzionalmente rispetto all’investimento per unità di lavoro). Come è agevole osservare, la divergenza, per l’Italia e nel periodo più recente, del sentiero effettivo rispetto alla linea di benchmark appare eclatante evidenziando rendimenti decrescenti all’intensificazione di capitale. Da un confronto con gli andamenti rilevabili per il sistema economico unanimemente considerato come esemplare dal punto di vista di una performance di crescita in anni recenti, gli Stati Uniti, la situazione specifica di sofferenza del nostro Paese risulta più evidente. Il diagramma riferito agli USA (v. grafico 2) rivela immediatamente un’evoluzione pressoché opposta evidenziando, sempre in riferimento al periodo post-anni ’80, un’elasticità più che proporzionale del prodotto all’accumulazione per il business sector di quel paese.

Il rallentamento della produttività non appare inoltre essere imputabile, sempre in termini comparativi, ad un minore intensità capitalistica dell’economia italiana, che anzi, in valore assoluto, resta comparativamente elevata. Ciò di cui sembra aver sofferto l’economia italiana appare, in primo luogo, una minore capacità di realizzare innovazioni di prodotto unitamente ad un’adeguata presenza nei settori complementari collegati alle nuove filiere produttive. La specifica capacità, nel corso del tempo, di assorbire il progresso tecnico potenzialmente disponibile dipende dallo stock di conoscenza accumulato. L’incapacità di applicare efficacemente dette conoscenze è alla base dell’insufficiente adattamento del modello di specializzazione nazionale alle dinamiche della domanda mondiale.

 

Recentemente, i segnali che indicano una crescente difficoltà da parte delle famiglie nel sostenere i consumi correnti sono divenuti più espliciti, richiamando l’attenzione di molti commentatori. A nostro, giudizio, la perdita di potere d’acquisto che ha interessato i percettori di redditi da lavoro non è imputabile a circostanze congiunturali.

E’ possibile stabilire una relazione diretta fra una distribuzione del prodotto a livello "micro" di impresa, e una distribuzione "macro" fra salari e profitti lordi(1), per cui all’aumentare del margine di ricarico sui costi variabili - fra cui ovviamente quello sul lavoro - praticato dalle imprese (c.d. mark-up) anche la quota dei profitti sul reddito complessivo dell’economia, a parità di altre condizioni, é destinata ad aumentare a scapito di quella del lavoro. Ciò, a sua volta, ha un effetto negativo sul tasso di crescita del reddito in quanto gli effetti sulla domanda totale associati ad una variazione di una qualsiasi sua componente autonoma (es. esportazioni, investimenti) tendono a diminuire. Piu’ precisamente, il moltiplicatore - il parametro che misura l’incremento del reddito complessivo in seguito ad un aumento di una componente della domanda - si esprime, nella sua formulazione più semplice, come reciproco della propensione al risparmio dell’intera collettività. Tale parametro sarà stabile nell’ipotesi che non vi siano modifiche sostanziali nella distribuzione del reddito. Ma se tale assunto viene meno nel corso del tempo, il risparmio che si forma nel sistema economico, nel caso di una re-distribuzione sfavorevole al lavoro, crescerà all’aumentare della quota dei profitti: più elevato è il mark-up, maggiore è la quota dei profitti, minore è il valore del moltiplicatore.

Tale congettura ha trovato pieno riscontro nella recente esperienza italiana, nella quale il mark-up è progressivamente aumentato (v. grafico 3) e, con esso, la quota dei profitti sul valore aggiunto totale cresciuta dal 18,6% del 1980 al 27,1% del 2006 (al netto degli ammortamenti). Ciò, nonostante che la quota dell’occupazione dipendente su quella complessiva sia aumentata.

All’incremento del mark-up per l’intera economia è corrisposta una caduta del valore del moltiplicatore, e quindi della capacità di generare reddito aggiuntivo in seguito ad una variazione di qualsivoglia componente della domanda finale come verificatosi, ad esempio, nel biennio 2006-2007 in presenza di una crescita sostenuta dell’export.

I riscontri presentati evidenziano come la strada per accrescere il saggio di crescita dell’economia richieda l’utilizzo di un’articolata strategia di policy. Per quanto attiene l’offerta, l’insufficiente presenza, in particolare dell’industria nazionale, nei settori caratterizzati da dinamiche della domanda mondiale relativamente più sostenute impedisce alla crescita del prodotto italiano di colmare il gap, in termini di rendimento del capitale investito, che tuttora lo separa dai paesi maggiormente avanzati. La possibilità di entrare in queste produzioni, tuttavia, è fortemente condizionata dalle rilevanti barriere all’entrata tipiche dei mercati oligopolistici. Appare difficile che le sole forze di mercato, o le riforme strutturali introdotte nel mercato del lavoro, possano fornire gli incentivi sufficienti ad accrescere la presenza di imprese italiane nelle produzioni più innovative in assenza di una politica industriale fortemente selettiva rispetto agli obiettivi da perseguire.

Negli ultimi tempi, il dibattito riguardo ai più opportuni strumenti in grado di accrescere i redditi reali da lavoro - tramite essenzialmente modifiche di natura normativa (maggior peso ai contratti integrativi, diminuzione del cuneo fiscale, ecc.) - ha conosciuto un’ampia ripresa. Come evidenziato dalle stime presentate, tuttavia, una consistente parte dell’economia italiana, specie nei settori dei servizi, presenta un’elevata capacità di traslare sui prezzi gli incrementi nei costi: ergo (eventuali) aumenti retributivi nominali, anche significativi, potrebbero essere in larga misura sterilizzati. Infatti, mentre i settori industriali sono sottoposti alla disciplina della concorrenza internazionale, questo di fatto non vale, o in misura assai più limitata, per molti servizi, in primis quelli di pubblica utilità e la gran parte dei servizi a "rete" (energia, trasporti, comunicazioni, ecc.). E’ in questo campo che il processo di liberalizzazione è risultato, in termini di minori prezzi pagati dal consumatore finale, poco, o talora per nulla, efficace. In presenza, dunque, di un mercato del lavoro tendenzialmente più flessibile e un di mercato dei beni e (soprattutto) dei servizi più rigido difficilmente l’attuale tendenza nella distribuzione del reddito, sfavorevole al lavoro, potrà far registrare apprezzabili miglioramenti.

Fonte: http://www.nelmerito.com:80/index.php?option=com_content&task=view&id=385&Itemid=73  

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