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Krugman, il Nobel graffiante (do Antonio V. Gelormini)
17.10.2008
Se c’era un modo per poter testimoniare in maniera globale e planetaria il biasimo e la censura alle scelte politiche del “peggior presidente americano del XX secolo” (Riotta), l’assegnazione del premio Nobel per l’Economia a Paul Krugman l’ha colto nella rappresentazione più realista di un dissenso crescente e turbolento, accentuato anche dagli sciagurati eventi finanziari di questi giorni.

In America avevano snobbato i suoi allarmi sul pericolo che i venti della Grande Crisi si potessero ripresentare, con tutte le irrazionali reazioni depressive che, nel 1930 e 1931, ne declinarono gli effetti nefasti sul sistema finanziario americano. Inascoltate erano rimaste le sue denunce sul rischio che governi e banche centrali si potessero trovare impotenti, in assenza di regole sul cosiddetto “mercato ombra”, di fronte agli umori del mercato stesso in un mondo globalizzato.
Sprezzanti i commenti quando Krugman aveva definito “inadeguato” il primo piano Bush-Paulson, per il salvataggio delle banche attraverso l’addebito allo Stato dei cosiddetti “titoli tossici”.

Si erano fermati ad osservare il dito che indicava il baratro, e avevano preferito invece mettere l’accento sulle sue critiche alle proposte programmatiche di Barack Obama, giudicate meno innovative di quelle di Hillary Clinton, in settori chiave come la sanità e il welfare. La cosa faceva più notizia e creava focolai propagandistici più cavalcabili degli allarmismi incendiari della finanza.

Oggi, dopo il prestigioso riconoscimento dell’Accademia scandinava, quasi che un’attenta regia ne avesse scandito tempi e sceneggiatura, assistono increduli ed esterrefatti alla resa senza condizioni di Gorge W. Bush e Henry Paulson. Che hanno dovuto ratificare da destra un inconcepibile allargamento dell’intervento statale nell’economia, i cui precedenti possono essere ritrovati solo negli anni della Depressione, quando proprio la federale Reconstruction Finance Corporation dovette acquisire partecipazioni azionarie in oltre 6.000 banche americane.

In un Paese sempre più consapevole del ruolo e del peso determinanti, ma non più esclusivi sul variegato scenario internazionale, ci si appresta a vivere i mesi forse più delicati di un cambiamento dalla portata storica straordinaria.
Per la prima volta i modelli risolutivi di crisi invertono la rotta e dall’Europa si impongono negli Stati Uniti. Le correnti dal Vecchio Continente portano con sé i rintocchi di una campana, che annuncia la fine dell’unico sceriffo del pianeta. Ma anche gli squilli di tromba di una ritrovata sintonia, per far fronte comune ai nuovi equilibri intercontinentali.

Sarà un caso, ma anche l’esigenza di incrementare le ore di insegnamento del latino nella scuola del “nuovo mondo” è sintomo di rinnovata attenzione e di una voglia, più che mai presente, di cercare prospettive future, scrutando meglio nel proprio passato.

(gelormini@katamail.com)

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