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Combattere il lavoro nero
24.08.2003

Sommerso / Combattere il lavoro nero in Europa

Dalla presidenza italiana  una proposta inconsistente.

Se il contributo che la Presidenza italiana vuole dare all’Ue in materia di contrasto al lavoro nero è quello delineato nelle poche paginette consegnate alle parti sociali e agli altri governi, o ancora quello uscito dall’incontro informale dei ministri del Lavoro svoltosi a Varese, allora occorre preoccuparsi. Il governo, infatti, non solo conferma un’impostazione di fondo coerente con quanto finora fatto (leggi 383 sul sommerso e 30 sul mercato del lavoro) – indipendentemente dai risultati e da molte delle buone pratiche "alternative" che invece proprio dall’Ue vengono propagandate –, ma avanza una lettura del fenomeno a dir poco superficiale (probabilmente con consapevolezza di ciò).

L’elaborazione che emerge dai primi incontri è sfacciatamente ipocrita nella forma e neoliberista nella sostanza. Tutto il documento ruota intorno al principio per cui, per sconfiggere il lavoro nero, la strada maestra è rappresentata da una "maggiore adattabilità del lavoratore alle flessibilità del mercato", dal riconoscimento del ruolo unico dell’impresa (indipendentemente da cosa e come produce), dal limitare "quelle politiche sociali che in molti contesti (quali? ndr) producono passività e quindi lavoro nero".

Ma procediamo con ordine. Nei primi giorni di luglio, prima dell’insediamento della presidenza di turno italiana, viene consegnato a Cgil, Cisl e Uil un primo documento di lavoro a cura del ministro Maroni dal titolo impegnativo "Lavoro sommerso e strategia europea per l’occupazione". La premessa è senz’altro condivisibile (del resto poche settimane prima tra i "dieci comandamenti" che l’Ue aveva prescritto ai paesi membri vi era un richiamo esplicito a fare dell’emersione parte integrante di una politica di sviluppo per la piena occupazione): "Le nuove linee guida ci impongono, per raggiungere gli obiettivi di Lisbona e per aumentare la coesione sociale, di avanzare politiche strategiche in grado di trasformare il lavoro irregolare in occupazione legale". Ma poi, affrontando l’analisi del fenomeno e soprattutto i soggetti coinvolti, emerge subito nel documento Maroni un’idea quanto meno datata di lavoro nero, indipendente, secondo il ministro, da qualunque rapporto con i diversi modelli di sviluppo possibili e dai processi di "selezione" che una competizione globale – ancora di più in fase di recessione economica – reca con sé, soprattutto quando si parla di realtà che competono solamente sul costo del lavoro (che per il governo è alto in tutto il continente, omettendo ad arte il fatto che così non è e che proprio in Italia, Grecia e Spagna – i paesi con maggior economia sommersa – questo è tra i più bassi in tutto l’Occidente).

Nell’ indicare le implicazioni di un fenomeno stimato tra il 7 e il 16 per cento del Pil dei paesi europei (25 in Italia) addirittura il governo accenna a una funzione in qualche modo positiva del fenomeno (in termini di prima formazione, di sostegno alle imprese in start up ecc.) senza nessun richiamo (neanche formale) al tema della sicurezza e degli incidenti sul lavoro. Appena accennato (cinque parole di numero) è infine il peso che l’economia sommersa ha nel falsare la concorrenza, nel danneggiare i territori e i contesti sociali che operano nella piena legalità, nonché il sistema fiscale e previdenziale.

Gli "eccessi burocratici" (tra cui un mercato del lavoro terribilmente rigido), gli "stili di vita" e "l’immigrazione clandestina" sono per il governo le principali cause del fenomeno (con buona pace di tanti economisti di ultima generazione anche liberali che hanno invece continuato a indicare nella mancanza di qualità nei processi produttivi e relazionali delle imprese e dei sistemi locali le vere origini).

Un documento di lavoro a dir poco lontano dalla realtà quindi, segnato da un’ipocrisia di fondo da parte del governo che tra le "proposte guida" parla spudoratamente di una semplificazione "dell’ambiente impresa", di eliminazione degli obblighi informativi connessi con l’incontro domanda-offerta di lavoro, di totale liberalizzazione del collocamento e dell’intermediazione di manodopera. In più – dimentico di quanto l’art. 8 della legge Biagi propone, nonché della politica di condoni portata finora avanti – il governo indica come massime priorità "l’aumento della funzione repressiva e sanzionatoria" dei servizi ispettivi e l’incoraggiamento tra l’opinione pubblica di un clima di "condanna sociale" verso chi opera nell’illegalità e non rispetta le leggi fiscali e i contratti di lavoro.

Tra dichiarazioni spudoratamente smentite da quanto il governo ha prodotto anche in termini legislativi e l’esaltazione della flessibilità come risposta strategica al lavoro nero, quello che realmente preoccupa (significativo è stato anche lo scetticismo del ministro del Lavoro tedesco in merito a questo documento) è la filosofia di fondo di una proposta politica che parla di migliorare la capacità produttiva dei lavoratori e non interviene (addirittura non cita) la questione vera che già nella comunicazione del 1998 della Commissione europea sul lavoro nero emergeva come il cuore del problema: "A fronte di un costo del lavoro tra i più bassi, il modello produttivo dei principali paesi mediterranei si caratterizza tanto per imprese che competono (o potrebbero competere) sulla qualità dei prodotti e dei processi, quanto per attività che – dato il nuovo contesto di competizione globale e la nuova divisione internazionale del lavoro – non possono più sopravvivere".

Insomma, contrastare il lavoro nero vuol dire estendere le reti di tutela, scommettere sulla qualità, aiutare in estrema sintesi le imprese dal destino segnato a riconvertirsi prima che sia troppo tardi (non aiutarle a sopravvivere per ancora qualche anno) e soprattutto vuol dire investire su uno sviluppo dal basso che punti su quelle realtà imprenditoriali e di sistema esistenti, le cui potenzialità potrebbero far sopportare oggi i costi di un ritorno alla legalità. Ma di questo, nel documento della presidenza italiana, non vi è traccia.

(A.G., Rassegna sindacale, n. 31, 7-13 agosto 2003)

fonte www.rassegna.it

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