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Itinerari (di Paola Carini) |
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2.12.2008
La diffusa teoria del popolamento del continente americano da parte di popolazioni che dall’Asia migrarono attraverso lo Stretto di Bering ghiacciato,* coinvolge esperti di genetica, biologia molecolare, geologi, archeologi, linguisti, paleontologi, storici, nonché le popolazioni nativo-americane e le loro teorie sulla propria preistoria, incapsulate nelle tradizioni orali. I sostenitori esibiscono datazioni radiocarboniche, esami di laboratorio sul Dna mitocondriale, prove della presenza dei ghiacci esattamente in epoche plausibilmente riconducibili all’attraversamento, i meno convinti spaziano da evidenze paleontologiche e archeologiche ad assonanze linguistiche scoprendo degli sbocchi alternativi. Si tratta di percorsi, a volte divergenti a volte intersecanti, che rendono la risposta scientifica alla colonizzazione umana dell’America un incongruo insieme. Si tratta, né più né meno, che di punti di vista, supposizioni, deduzioni spesso basate sulla rivisitazione di dati già acquisiti, la cui validità scientifica, anche quando ineccepibile, spesso non collima con le testimonianze tribali. Prive di tale supporto, queste teorie sono come piccole onde che non hanno la forza di giungere a riva, itinerari inconcludenti che portano in luoghi indefiniti.
Di itinerari, di onde e di maree ne sapevano invece molto i chumash. Abitanti della California, secondo stime archeologiche, da almeno diecimila anni, i chumash formavano un insieme di villaggi che si allungavano lungo la costa pacifica da Malibu (amena località a nord di Los Angeles) a San Luis Obispo. La vastità del territorio occupato giustificava la differenziazione in dialetti diversi, seppur mutualmente intelligibili: ventureňo, ynezeňo, barbareňo, purisimeňo e obispeňo parlati dai gruppi che abitavano lungo la costa, il chumash parlato all’interno, e la variante delle isole del Canale di Santa Barbara. Le missioni spagnole** sorsero proprio in prossimità dei villaggi più grandi erodendo, come si evince dai nomi sopraccitati, i toponimi locali oltre che il nome proprio della tribù. Contando un numero che va dai quindici ai ventimila che si ridusse a duecento ai primi del Novecento, i chumash vivevano dell’abbondanza della macchia costiera e del pescoso Oceano Pacifico. Navigatori eccellenti, avevano sviluppato una tecnologia marinara semplice ma efficace: le tavole abbarcate di legno leggero e robusto rese impermeabili da strati di catrame formavano uno scafo grande ma snello chiamato tomol, portato da cinque rematori in grado di solcare velocemente le correnti potenti ed insidiose del Pacifico. Genti di mare e di terra, i chumash – le genti delle conchiglie – si spostavano su e giù per un ampio tratto di oceano facendo visita a vicini, approvvigionandosi di pescato, commerciando tra loro e con le popolazioni vicine come i tongva, che abitavano il territorio appena più a sud. Prova della loro grande mobilità è la geografia californiana centrale: Malibu (humaliwo) è il luogo dove “le onde fanno rumore”, Anapamu (una via collinosa nella città di Santa Barbara) è il “luogo in salita”, i monti Chismahoo sono c’ismuhu, cioè il luogo dove il fiume defluisce, il Calabazal Creek non è un ispanismo ma significa guscio di tartaruga, Lompoc è la zona delle acque stagnanti, il Castaic Lake è, semplicemente, il viso, Pismo Beach è la zona del catrame (pismo, appunto), Zuma Beach è il luogo dell’abbondanza e il Tajiguas Creek, contrariamente alla sonorità spagnoleggiante, è taxiwax, il luogo dove l’acqua filtra.
I chumash erano ottimi astrologi, abili artigiani, astuti cacciatori ed eredi di una tradizione culturale ricca di una articolata visione cosmologica e con le idee ben chiare su chi fossero i loro antenati – a cui fanno risalire la paternità dei petroglifi della zona – e da dove essi provenissero, cioè da occidente, dal mare.
Quando i conquistadores si spinsero a nord dalla Baja California tutte le popolazioni autoctone, chumash inclusi, conobbero secoli di violenze e tentativi di annientamento. Nel 1834 erano rimasti meno di dieci tomol, i pagaiatori, riuniti in clan, una manciata, e la popolazione chumash delle isole costretta a spostarsi sulla terraferma, imprigionata nelle missioni.
La lingua pian piano si fece evanescente, le tradizioni si diluirono e così la manualità dei maestri d’ascia, e le vie d’acqua – gli itinerari secolari dei chumash – sbiadirono nella memoria.
Fino al 1976.
Grazie al recupero degli appunti che l’antropologo Harrington compilò agli inizi del secolo sulla vita e sulla lingua dei chumash interrogando gli ultimi membri in grado di parlarla, un gruppo determinato di discendenti costruì un tomol di nome Helek (falco pellegrino) che dall’isola di San Miguel venne condotta da un clan di pagaiatori all’isola di Santa Rosa e poi all’isola di Santa Cruz. Come racconta Roberta Reyes Cordero, fondatrice della Chumash Maritime Association, la Helek incontrò le correnti insidiose del Canale tra le isole di Santa Cruz e Santa Rosa proprio come indicavano le testimonianze degli anziani. I pagaiatori riuscirono ugualmente a completare il viaggio, ma la barca di rovesciò quasi a riva e si danneggiò. Un secondo tentativo venne fatto nel 2001, questa volta con il coinvolgimento di molti chumash che, pur vivendo in realtà urbane come Los Angeles o Santa Barbara, si diedero appuntamento all’isola di Santa Cruz per accogliere i pagaiatori alla fine del loro viaggio su di un nuovo tomol di nome ‘Elye’wun, pesce spada. Costruito dalla Chumash Maritime Association questo tomol, di proprietà esclusiva dei chumash, venne condotto da un gruppo di 23 pagaiatori – due ragazzini di undici e dodici anni e donne e uomini adulti. L’esperienza fu esaltante e l’insegnamento preziosissimo: solamente con l’armonia tra i membri, che è ben più che movimento sincrono, il tomol può essere condotto superando le insidie del mare. Per questo il viaggio fu come “una preghiera”, un itinerario percorso a ritroso nello spazio, nel tempo e nell’animo di ciascun membro.
Oggi, alcuni studiosi cominciano a mettere in luce la straordinaria somiglianza tra le tecniche di costruzione del tomol e le imbarcazioni polinesiane, le concordanze linguistiche per designarlo, persino la somiglianza totale degli ami di lische di pesce in uso tra queste distanti culture. La conclusione è che i polinesiani abbiano solcato il Pacifico spingendosi sino alle coste della California, dove trasmisero le loro conoscenze prima di insediarsi stabilmente nelle isole Hawaii***.
L’affermazione dei chumash che definiscono sé stessi come genti venute dal mare rimane a margine delle nuove teorie sulla preistoria americana, ma poco importa. Ricostruendo tenacemente lingua e cultura essi stanno riscoprendo il loro passato; solcando il mare, con pazienza e umiltà essi stanno riscoprendo gli itinerari difficili ma veri dello spirito alla ricerca di sé stessi.
*Nell’articolo “Il ponte aleutino” di questa rubrica.
** In “Civiltà ”
***In “America immaginata”
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