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Crisi finanziaria e regolazione di E.barucci
21.12.2008

CRISI FINANZIARIA E REGOLAZIONE: ALDILA' DEI LUOGHI COMUNI di Emilio Barucci .La cris i finanziaria ha dato la stura ad un ‘‘processo’’ nei confronti del paradigma di politica economica che si è andato consolidando negli ultimi venti anni. Un impianto caratterizzato da quattro ‘‘pilastri’’: privatizzazione (proprietà privata piuttosto che pubblica), liberalizzazioni (iniezioni di concorrenza nei mercati), regolazione (definizione di tariffe, politiche di accesso a monopoli naturali, tutela di attori di mercato ‘‘deboli’’), globalizzazione (apertura dei mercati dei capitali e dei beni, superamento di istanze protezionistiche).

A seguito di una crisi finanziaria dalle inusitate dimensioni e con il riaffermarsi nei fatti del ruolo dello Stato nell’economia, queste linee di policy sono state confuse finendo per fare riferimento ad un indistinto confronto tra politica e mercato.

Così impostato il discorso rischia di essere malposto, la crisi finanziaria non è ‘‘colpa’’ né del mercato né della politica in senso stretto quanto piuttosto della cattiva regolamentazione e della politica monetaria statunitense. Occorre infatti ricordare che le cause della crisi sono sostanzialmente due: la prima è di tipo macro ed affonda le sue radici negli squilibri a livello mondiale e nelle disuguaglianze della società americana, la seconda ha invece a che vedere con la cattiva regolamentazione del sistema finanziario. Queste due cause hanno dei punti di contatto ma sono ben diverse e occorre distinguerle sia per comprendere quello che sta accadendo che per valutare i riflessi di policy della crisi.

In merito alla prima causa la ‘‘colpa’’ è davvero della globalizzazione o piuttosto di una politica monetaria degli Stati Uniti unilaterale che ha drogato l’economia? Certo si potrebbe sostenere che se il mercato dei capitali fosse stato regolato con ferrei vincoli allora il livello di indebitamento degli Stati Uniti (così come quello degli intermediari) non sarebbe arrivato ai livelli raggiunti ante crisi. Il rimedio sarebbe draconiano e non renderebbe giustizia degli indubbi vantaggi che la globalizzazione dei mercati ha portato sul fronte della crescita e (anche se più contrastanti) delle disuguaglianze. Insomma la risposta commisurata ai problemi è la seconda piuttosto che la prima. Quello che è certo è che il governo della moneta negli Stati Uniti sarà oggetto di una riflessione profonda, il modello FED subirà una rivisitazione e c’è da augurarsi che questo sia accompagnato da un rafforzamento del ruolo delle autorità internazionali con un coinvolgimento dei Paesi emergenti. Occorre comunque essere realisti: il problema è politico e la soluzione non risiede in autorità internazionali dalla governance decisa a tavolino.

Veniamo alla seconda causa. La crisi ha mostrato che i mercati finanziari sono una cosa ben diversa dai mercati dei beni. I processi di aggregazione nel mondo dell’intermediazione e lo sviluppo dei mercati (soprattutto dei derivati) hanno reso manifesto che non possiamo permetterci il fallimento di una banca di grosse dimensioni: le banche sono interrelate su più mercati, il rischio controparte è ramificato, pervasivo e non può essere colto tramite misure tradizionali di concentrazione. La liberalizzazione dei mercati, l’innovazione finanziaria, le fusioni tra intermediari, il concentrarsi su obiettivi di breve periodo, il venir meno di obblighi di specializzazione dell’attività degli intermediari, la decentralizzazione dei controlli in capo al singolo intermediario hanno creato le condizioni per l’instabilità del sistema. La politica dei bassi tassi interesse è stata la miccia che si è innescata su un sistema regolatorio che ha mostrato di non funzionare a dovere permettendo l’accumularsi di un elevato livello di leverage, di assets di dubbia qualità e di una forte concentrazione di rischio controparte. Mentre gli squilibri mondiali nell’economia reale possono e debbono essere tenuti sotto controllo tramite strumenti macroeconomici classici, questa crisi ci insegna che l’apparato regolatorio deve essere riconsiderato profondamente. C’è stato un eccesso di fiducia nei confronti della regolazione in tema di finanza, la politica in tema di concorrenza non ha colto gli elementi di instabilità, la decentralizzazione dei controlli ha avuto le maglie larghe. A differenza dei mercati dei beni e dei servizi, il mondo della finanza necessita di un ripensamento profondo che tenga conto del problema della stabilità: un sistema finanziario si basa sulla fiducia e questo richiede una regolazione molto più stringente di tipo ex ante in quanto non ci possiamo permettere un fallimento del sistema. E’ da mettere in conto quindi una politica più severa in tema di concentrazioni, un ritorno a qualche forma di vincolo ex ante più severo (coefficienti patrimoniali più elevati, vincoli di portafoglio), senza escludere il riaffacciarsi di una segmentazione dei mercati. Questo passaggio richiede anche che il sistema di regolazione e di vigilanza sia omogeneizzato almeno a livello europeo per impedire arbitraggi regolamentari.

Riassumendo la globalizzazione non è in discussione anche se richiede un coordinamento/indirizzo ‘‘politico’’ che ad oggi manca, ci siamo imbattuti in un esempio eclatante di fallimento della regolazione per quello che riguarda la finanza ma questo non coinvolge necessariamente altri settori e non mette in dubbio i benefici delle politiche di liberalizzazione (nei servizi a rete, nei servizi locali ecc.) anzi la necessità di politiche proconcorrenziali esce rafforzata dopo questa crisi. Veniamo all’ultimo punto: il ruolo dello Stato.

L’intervento pubblico a sostegno delle banche ha assunto forme diverse ma nella sostanza si è concretizzato in una garanzia dello Stato a fronte di un possibile fallimento. Questo intervento ha riaffermato un punto che sembrava dimenticato: la salute di un sistema finanziario è un ‘‘bene’’ che appartiene ad una comunità. I difensori duri e puri del libero mercato sostengono la tesi che lo Stato dovrebbe fornire le risorse per la stabilizzazione del sistema per poi farsi da parte senza entrare nella gestione delle banche. Questa posizione, che ha fatto tuonare molti contro la possibilità che lo Stato entri nel capitale delle banche, rischia di motivare interventi ancora più opachi e condizionanti ed è da rigettare per due ordini di motivi. Si contravviene al principio base del mercato: chi ci mette i denari, a maggior ragione in un momento di emergenza, deve esercitare un diritto patrimoniale e un potere di gestione. In secondo luogo gli interventi avranno effetti redistributivi assai significativi: è lecito che i cittadini chiedano conto al Governo di come verranno spesi i loro soldi. La strada più lineare sarebbe che lo Stato entri direttamente nel capitale delle banche con poteri limitati e temporaneamente, come hanno fatto dopo molte esitazioni in Inghilterra e negli Stati Uniti, e non tramite finanziamenti corredati di codici etici come è avvenuto in Francia e rischia di avvenire in Italia.

Occorre tenere presente un punto importante: in un momento di crisi sistemica quale quella che stiamo vivendo il ruolo dello Stato come ente supremo di una comunità si è riaffermato. Lo Stato in quanto fornitore ultimo di assicurazione è legittimato ad intervenire. Non deve possedere le banche, non deve aiutare le imprese di singoli settori ma deve avere un ruolo significativo laddove il fallimento del mercato è eclatante: fornire assicurazione, accumulazione del risparmio ai meno abbienti, investire nei servizi a rete e nei servizi essenziali, ecc. Questa, assieme al fallimento della regolazione nei mercati finanziari, è la lezione che dobbiamo apprendere, ma attenzione il vero problema è come farlo: anche dopo la crisi, lo Stato come imprenditore non garantisce risultati eclatanti.

fonte: http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=575&Itemid=1

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