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Una serata per Carmelo Bene. Ricordarlo o riviverlo?
3.09.2003

Un equivoco. Più che una festa la serata dedicata a Carmelo Bene, il primo settembre, e organizzata dal Comune di Roma, in collaborazione con la Fondazione "L'Immemoriale di Carmelo bene", può dirsi un equivoco. O un paradosso. Perché ricordare, nella data del suo compleanno, un artista (morto nella primavera del 2002) che odiava i compleanni, le forme di commemorazione e i "fondamenti", potrebbe sembrare inopportuno e pure irrispettoso. Ma il punto, l'equivoco, è un altro. E legittimo. Il punto, come ha spiegato Piergiorgio Giacché, presidente della Fondazione, è che « a voler questo compleanno siamo noi»: gli amici, gli estimatori, il pubblico; e non per commemorare o celebrare ma per «cercare di indagare, far conoscere le cose, le opere di Bene, soprattutto quelle ancora sconosciute».
Che sia un evento importante e atteso lo dimostrano i biglietti d'ingresso gratuiti distribuiti nei giorni scorsi ed immediatamente esauriti e la sala Sinopoli dell'Auditorium, il Parco della Musica di Roma, affollata. Più di mille persone che hanno voluto riascoltare la voce del «genio» in alcune delle sue memorabili intepretazioni leopardiane, assistere alla presentazione della traduzione in francese di "Nostra Signora dei Turchi", realizzata da Jean Paul Manganaro, e vedere, in anteprima assoluta le immagini dello spettacolo "Lorenzaccio, al di là di de Musset e Benedetto Varchi" che l'artista aveva cominciato a montare insieme a Mauro Contini e che oggi è stata completata a cura della Fondazione.
«Il nostro compito - ha dichiarato Giacché - è quello di divulgare, promulgare l'opera di Bene. Perché "L'Immemoriale" non è dedicata a Bene ma è di Bene. È il suo testamento. E per noi ora un ente morale, che come scrisse una volta lo scrittore Sandro Veronesi deve servire a "far confrontare la cultura italiana". Ricordandoci però - ha proseguito Giacché - che le opere di un grande attore muoiono con lui. Non possono considerarsi vive in sua assenza. Ciò che resta, il residuo, continua sì a parlare ma in assenza del capolavoro».
Un'assenza incolmabile, dunque, che non giustifica però, come ha sottolineato Gianni Borgna, assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma, «la facilità e la rapidità con cui il nostro Paese dimentica i suoi grandi artisti, né far dimenticare le difficoltà incontrate negli ultimi anni da Carmelo Bene nel fare spettacoli, o per fare un altro esempio anche da un altro grande artista quale Federico Fellini, nel fare film.». Anche per questo il lavoro della Fondazione si fa più ambizioso: e accanto al "Progetto Lorenzaccio" che prevede il recupero, il restauro e la digitalizzazione dell'opera ritenuta la più importante dall'artista stesso, c'è un progetto di promozione dell'opera di Carmelo Bene in Francia, in programma all'inizio della stagione 2004-05 a Parigi. «Il Lorenzaccio - ha affermato Giacché - è l'opera di snodo, quella che segna l'inizio della fase di lavoro e pensiero più recente di Bene, perché è davvero l'atto più esplicito e compiuto di superamento della rappresentazione e di negazione della storia». Un modello, un punto di non ritorno fra arte e pensiero e anche lo spettacolo meno rappresentato messo in scena nel 1986 e interpretato dallo stesso Bene, Isaac Gorge e Mauro Contini. E se non fosse per un audio tutt'altro che buono, che è motivo di indignazione per qualcuno degli spettatori, si potrebbe davvero rimanere estasiati, incantati di fronte al video, ad ammirare "Il Lorenzaccio" con la sua geometria scenica: tre piani; tre tempi, la storia, la scena, l'arte, e il loro rapporto che mostra i limiti e l'impossibilità della rappresentazione. Della messa in scena. Una prova della teoria di bene, della definitiva uscita di scena e dell'atto stesso. Alla fine, però, con l'eco nelle orecchie di Bene che dà voce a "L'Infinito" leopardiano, si ammira e ci si emoziona, comunque, nonostante i limiti o i problemi fonici; e ci si interroga anche su quello che del "Lorenzaccio" ne avrebbe detto lo stesso Carmelo, se pure lui, al temine del filmato, con il sottofondo degli applausi, si sarebbe unito all'altro applauso quello in diretta, quello del pubblico dell'Auditoriom, che riconosce come «il genio fa quello che può non quello che vuole», e lui, plausi o meno, poteva.

di Tullia Fabiani
da www.unita.it
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