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Giorno della Memoria: intervento al Senato di Sergio Zavoli
28.01.2009
CELEBRAZIONE DEL GIORNO DELLA MEMORIA AL SENATO - 27 gennaio 2009

INTERVENTO SEN. SERGIO ZAVOLI PER IL PD

Signora Presidente, onorevoli colleghi, sarà l'improvvisa crisi finanziaria ed economica che ha coinvolto tre quarti del pianeta, l'eco delle bombe e dei razzi su Gaza e Israele, la coinvolgente lezione di Obama, il diffondersi di violenze contro le persone più indifese (a cominciare dalle donne), il concitato momento in cui versa la questione degli immigrati: sarà questo o altro, sta di fatto che siamo arrivati al Giorno della Memoria un po' svuotati dell'empito da cui nacque. Abbiamo a tal punto banalizzato la vita e la morte che ciò può accadere anche per la storia, la quale parla sempre più da lontano. Eppure, nella vita dell'umanità c'è un passato che non è mai passato del tutto e non possiamo accettare le ottuse o subdole pretese di cancellarlo. Ecco perché il nostro Parlamento, su iniziativa del senatore Furio Colombo, votò all'unanimità l'istituzione del Giorno che si sta celebrando.

Siamo come ingrigiti nel troppo tempo concesso alla dimenticanza, all'ambiguità, all'arrendevolezza, persino alla menzogna. Bisognerebbe costringere la storia a restare sotto i nostri occhi, se del caso criticandola, sbugiardandola, additandola, non per far durare il rancore - dal momento che ci è impossibile zittire una voce anche cristiana, fondata sulla pietà - ma perché non muoia la certezza della colpa e la lezione della sofferenza.

Sebbene milioni di uomini abbiano avuto la vita rubata, sfigurata, incenerita, un grande salto generazionale ha disteso una sorta di oblio sull'onta del secolo. Non è più tempo di memoria, si sente dire. Essa attarda il presente e allontana il futuro. A tale processo, che ha qualcosa di indicibile, ha messo mano chi, avendo dell'esistenza e della storia un sentimento quotidiano e indistinto, vorrebbe liberarsi da ogni responsabilità precedente. Non mi richiamo all'abusata, declamatoria saggezza secondo la quale chi non sa giudicare il proprio passato è destinato a riviverlo: dico, semplicemente, che una così grande tragedia esige di non essere dimenticata in un tempo che, secondo l'analisi di uno storico apocalittico, si avvia a diventare «una continua rincorsa tra l'informazione e la catastrofe».

Ma «un uomo è un uomo per il suo avvenire», ha scritto Borges, e non potremmo affrontarlo senza la nozione di ciò che siamo stati e di come abbiamo agito. Chissà se, nel togliersi la vita, Primo Levi è stato assalito dal frastuono o dal silenzio della sua vita. «Un uomo che è stato torturato rimane torturato», aveva detto. Quel giorno Franco Antonicelli scrisse: «La memoria è, in qualche modo, ciò che ci permette di parlare ai giovani anche delle nostre sconfitte». Borges, uno scrittore e un poeta molto lontano dalle vocazioni e dall'esperienza, tragica, di Levi, dirà: «Senza il ricordo non siamo nulla, non resta che aspettare l'amnesia finale, che cancella una vita intera».

Signora Presidente, sono trascorsi sessantaquattro anni, come ha ricordato poco fa il presidente Schifani, da quando un'avanguardia dell'esercito americano entrava nel campo di Auschwitz e il filosofo Theodor Adorno disse che non sarebbe stato più possibile scrivere una poesia. Forse non era un allarme soltanto morale: egli si pronunciava anche contro l'«estetizzazione» della sofferenza, giudicandola un modo di trasferire i contenuti dentro la cornice dell'enfasi e del dolorismo, anziché lasciarli a un giudizio nudo, fondato sulla storia. Questa tesi mi è parsa chiara ascoltando, nella trasmissione «I giorni e la storia», un'anziana signora che aveva perduto a Dachau dodici tra familiari e congiunti ed era sfuggita, non si sa come, alla camera a gas: essa dichiarava di voler vivere a lungo perché, disse, morto chi vide, nessun altro, neppure il più reputato degli storici, o degli scrittori, o dei poeti, potrà rendere credibile quel crimine.

Un giorno, temeva la donna, tutto rimarrà affidato alle volenterose, ma incredibili rievocazioni ideologiche, alle rappresentazioni drammaturgiche, se non addirittura agli ingenui racconti dei cantastorie.

Un grande salto generazionale, inedito nella sua irrevocabilità, sta infatti cancellando vita e morte di chi conobbe l'onta del secolo. Oggi il mondo ha una memoria che comincia al di qua di quell'immane peccato. Eppure abbiamo ancora tremendi motivi per dire che la memoria non è una sbiadita coscienza che ha già concluso il suo cammino, ma ciò che tiene in vita proprio quella coscienza; perché il ricordare, nel senso che qui oggi intendiamo, è un dovere etico, e farne passare il significato di generazione in generazione è una pedagogia paterna, nutrita da un amore fatto di carne e spirito, che scorre lungo le vene di una filiale continuità, prima ancora che sulle pagine dettate dalla storia.

Ho incontrato, nel mio lavoro, diversi giovani che esprimevano una volontà dissacratoria rozzamente declamata, ma che non poteva non essere l'avvisaglia di qualcos'altro, un'imprecisa inquietudine che si placava solo volgendola in rancore, intolleranza, violenza; e che cercava un tratto sciagurato d'identità nei simboli presi dai repertori non solo della stupidità, dando la sensazione di voler sputar fuori qualcosa di oscuro e di minaccioso.

In realtà, tutto insorgeva da un vuoto di conoscenza pari soltanto all'incapacità di capire; dove però l'imbecillità si appassionava e c'era sempre più d'uno che fingeva di credere in qualche, seppur truce, oltre che malinteso, ideale. Da allora abbiamo continuato a leggere sui muri di città e paesi, stadi e scuole, chiese e cimiteri la loro prosa sciagurata e nondimeno ascoltato la discolpa della loro età, se non addirittura della loro innocenza, da un altro sventurato versante: quello di un insorgente negazionismo. Persino un vescovo lefebvriano ha avuto, come oggi titola a tutta pagina «l'Unità», «un vuoto di memoria».

Con queste premesse non dovremmo informare i giovani riandando a ciò cui ci richiama la memoria? La loro coscienza non dovrà essere avvertita di fronte al perdurare, addirittura all'aggravarsi, di ciò che dovrebbe invece ammonirli?

Certo, non dovrà venir meno la costante e laboriosa disposizione della democrazia a trarre da queste temperie motivi di riflessione rigorosa e ferma, anziché rabbie emotive o sterili sdegni; e alla famiglia, alla scuola, ai mass media, al Parlamento, alla Chiesa spetterà, piuttosto, di fare ciascuno la propria parte, per essere instancabili eredi e continuatori del ricordo in quanto strumento di una rinnovata consapevolezza. Ciò per vivere una rigenerazione civile e spirituale, secondo il principio in base al quale la ragione non può stancarsi di ragionare.

Proiettare la memoria nel futuro non dev'essere un perdurante, sfiduciato, pessimistico sentimento di insicurezza, ma un segno di civismo, di moralità, di avvedutezza. Chiudere un libro, insomma, ma tenendo aperta l'ultima pagina, quella del bilancio e della previdenza, che stanno - come sempre nella vita - tra passato e futuro. In ciò sorretti dalle parole di Agostino d'Ippona, il quale dice: «Da due pericoli dovremo ugualmente guardarci, dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento». Elias Canetti darà un volto laico, per dir così, a questa speranza. Egli dice: «Certe speranze, quelle pure, quelle che nutriamo non per noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, che procedono dalla bontà innata della natura umana, poiché anche la bontà è innata, queste speranze di un giallo solare bisogna nutrirle e difenderle quand'anche non dovesse mai giungere l'istante in cui si compiano: perché nessun inganno è altrettanto sacro, e da nessun altro dipende a tal punto la nostra possibilità di non finire completamente sconfitti».

Uno storico ha immaginato che questo tempo stia inaugurando un fenomeno fino a ieri impensabile: la cronaca, per effetto della velocità impressa dalla comunicazione, è ormai contigua alla nostra storia. E la memoria comincerebbe solo dall'altro ieri.

Non credo che ciò accadrà presto, ma occorre fin d'ora persuaderci che il pericolo è sempre meno il pericolo e sempre più la mancata percezione del pericolo. Una saggezza da poco, direte: la questione, è vero, esigerebbe molto di più. Ma «tutto, della storia» - ha detto Toynbee - «a veder bene comincia ogni giorno dal poco». «Perciò» - ha aggiunto - «ogni uomo, anche il più semplice e debole, è tutta l'umanità». Uno di quei giorni è oggi, ed è di tutti. (Vivi, generali applausi. Molte congratulazioni).

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